L’idea di potenziare lo sfruttamento del sottosuolo italiano per l’estrazione di idrocarburi è una proposta finita recentemente su molti programmi elettorali, ed è anche condivisa dall’attuale governo: «Stiamo pensando di consentire l’estrazione di 4-5 milioni di metri cubi su giacimenti esistenti, senza intaccare l’Alto Adriatico che è problematico per vari motivi, in modo da dare un aiuto alle aziende», ha annunciato di recente Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica. Pare infatti in arrivo un nuovo decreto che prevede incentivi indirizzati agli operatori del settore, così da rilanciare la produzione di gas naturale.
L’obiettivo è quello di ridurre al minimo la nostra dipendenza dalle esportazioni di gas russo, specie ora che il ricatto di Putin sulle forniture ha fatto esplodere una crisi energetica latente. La realtà è che se ne discute da anni, almeno dal 2016, in cui il mancato raggiungimento del quorum (nonostante la netta preponderanza dei suffragi favorevoli) fece fallire il referendum sulle trivelle che voleva abrogare il rinnovo delle concessioni estrattive per i giacimenti esistenti entro le 12 miglia dalla costa italiana. Sembra passato un secolo da quel momento: adesso produciamo quasi la metà dei metri cubi di gas, e la vexata quaestio è rimasta sospesa così a lungo da fornire il tempo a qualche politico di poter cambiare completamente idea in merito, sperando di passare inosservato.
Ma chi ha buona memoria (e passione per il circo) non può invece non aver notato l’abilità acrobatica di Meloni e Salvini in grado di mutare opinione per convenienza con una torsione degna dei migliori acrobati del cirque du soleil. Il programma congiunto di centrodestra, infatti, spinge per un «pieno utilizzo delle risorse nazionali, anche attraverso la riattivazione e nuova realizzazione di pozzi di gas naturale».
Altri partiti, come Azione di Carlo Calenda e Italia Viva di Matteo Renzi, trattano più pragmaticamente la questione e ricordano che la riapertura sarebbe una misura emergenziale utilizzata più come extrema ratio data la situazione geopolitica attuale, piuttosto che un orientamento pensato per il lungo periodo, in cui l’energia pulita sarà l’unica alternativa possibile. Aumentare la produzione di gas nazionale riattivando e potenziando gli impianti già esistenti presenta sia difficoltà che opportunità, vediamole tutte nel dettaglio, considerando sia l’aspetto tecnico-quantitativo che quello economico-finanziario.
Quantità di gas estraibile
«Per quanto riguarda le quantità realmente disponibili di risorse, il contributo proveniente dall’aumento della produzione interna esiste, ma non è elevatissimo», sostiene il professor Luigi De Paoli, ordinario di economia applicata alla Bocconi. «L’Italia estrae il 4,4 per cento del gas che consuma: l’anno scorso abbiamo consumato 76 miliardi di m³ di gas producendo 3,5; se passassimo ad estrarne cinque o sei miliardi (cifra raggiungibile in non molti anni, Ndr.) sarebbe un piccolo contributo che può avere rilevanza anche perché darebbe valore aggiunto all’economia del Paese, investibile in fonti rinnovabili, e creerebbe nuovi posti di lavoro».
Secondo i dati del Mite (ministero della Transizione ecologica), al 31 dicembre 2021 in Italia sono presenti con certezza un totale di almeno 39.850 miliardi di metri cubi di gas, considerando sia quelli presenti in mare che quelli a terra. A cui vanno aggiunti altri 44.472 miliardi definiti probabili, ovvero con possibilità di estrazione che si aggira intorno al 50 percento. Esiste poi un’ulteriore quantità pari a 26.753 miliardi di metri cubi classificata con probabilità di estrazione molto al di sotto del 50 percento, quindi con un elevatissimo tasso di difficoltà tecnica di estrazione.
Secondo gli esperti una stima ragionevole di tutto il gas naturale realmente estraibile oggi in Italia si aggirerebbe tra i 70 e i 90 miliardi di metri cubi. Una cifra relativamente bassa, basti pensare che l’ultimo giacimento ritrovato da Eni al largo di Cipro, da solo, contiene circa la stessa quantità di tutto il gas in Italia.
Però bisogna tenere presente che le stime di cui parliamo sono state fatte una trentina di anni fa, perché da allora si è smesso di investire in esplorazione. Come ricorda Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia (che avevamo intervistato già in passato per parlare del price cap), «Le tecnologie di individuazione sono migliorate drammaticamente negli anni, soprattutto l’Eni ha tecnologie avanzatissime grazie alle quali trova gas in tutto il mondo. Se queste tecnologie venissero applicate anche da noi le riserve potrebbero tranquillamente triplicare». Il problema è che bisognerà investire a lungo termine su energia inquinante, il che va contro tutti i trattati di riduzione delle emissioni varati in Europa.
Valore economico
Oltre ad essere relativamente scarse, il problema delle riserve di idrocarburi in Italia è che sono poco concentrate e quindi non sono estraibili tutte in un colpo solo. Si contano oggi ben 1.300 giacimenti attivi, ma ne vengono utilizzati con continuità poco più di 500: circa il 9 per cento delle concessioni attive fornisce oltre l’80 per cento della produzione nazionale. Il motivo è che sfruttarli tutti insieme è poco vantaggioso per i produttori. Pensare di attivare tutti questi siti, date le scarse risorse presenti in ognuno di essi, e dato il costo di produzione dei macchinari estrattivi, non è per nulla conveniente. Così poco come sarebbe raccogliere un granello alla volta per costruire un castello di sabbia.
Infatti verso la fine degli Anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo l’estrazione era sei volte maggiore, raggiungendo i 20 miliardi di metri cubi annui. Il motivo di questa riduzione è che per molto tempo non abbiamo avuto problemi di approvvigionamento, il tema non era di tipo geopolitico come adesso, ma solo di prezzi, quindi non conveniva estrarre o aprire altri pozzi, piuttosto era meglio importare. Questa situazione però si è completamente ribaltata con l’aumento dei prezzi di vendita del gas in Europa. Tabarelli fa notare che «i prezzi sono aumentati di quasi 20 volte da noi, questo fa sì che certi giacimenti non sfruttabili prima della guerra siano diventati estremamente redditizi oggi».
Come si può notare dalla mappa più aggiornata, ad oggi esistono pochissimi casi di pozzi pronti ad operare nell’immediato. La quasi totalità o ha pressione bassissima, e sono quindi quasi completamente esauriti (pozzi produttivi non eroganti), oppure mancano ancora di tutte le facilities: macchinari estrattivi e di raffinazione, piattaforme e metanodotti. Il tempo per ottenere gli strumenti necessari all’estrazione di idrocarburi offshore compresi i nuovi siti di stoccaggio si aggira intorno ai due anni.
Aspetti legali
Oltretutto, se si volesse sfruttare maggiormente i pozzi ancora inattivi bisognerebbe risolvere alcuni vincoli legali. L’articolo 8 della legge 6 agosto 2008, n. 133 ha imposto il «divieto di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi nelle acque del golfo di Venezia» e la «rinuncia al fracking (fratturazione idraulica) per i rischi ambientali, in particolare sismici». L’Adriatico settentrionale è sì la zona più ricca di risorse naturali di tutta Italia, ma purtroppo è anche la più fragile. E gli esperti confermano che l’area è già stata colpita dalla subsidenza, sprofondando di quasi 2 metri da quando negli Anni ‘60 si è cominciato a estrarre acqua metanifera dal suolo.
A rendere ancora più complessa la rimozione del vincolo legislativo ci sono le più recenti modifiche costituzionali (art. 9 e 41) che sanciscono la preminenza dell’aspetto ambientale degli ecosistemi rispetto all’iniziativa pubblica e privata. Per evitare il problema bisognerebbe escludere le riserve dell’alto Adriatico. Nel piano proposto dal ministro Roberto Cingolani qualche mese fa si era preso in considerazione di ricavare 2,2 miliardi sfruttando maggiormente i giacimenti nel Canale di Sicilia.
Fossimo anche disposti a giocarci la Serenissima per estrarre più gas, dovremmo mettere in conto che vanno aggiunti circa 12 mesi per la rimozione del vincolo legislativo. Ma non è finita qui, ne servirebbero altri 16/18 per completare l’iter autorizzativo necessario prima di dare il via ai lavori di costruzione delle macchine. Facciamo i conti. 24+12+16, arrotondiamo per difetto: il risultato ci dice che ci vorranno almeno quattro anni prima che la maggior parte dei nuovi giacimenti cominci effettivamente a erogare gas.
Impatto sui prezzi
Un altro tema cruciale riguarda l’impatto che può avere sul prezzo del gas che acquistiamo. Estrarre gas in Italia, infatti, costa meno che comprarlo all’estero. Ma bisogna tenere in considerazione che il gas che produciamo non lo portiamo direttamente a casa nostra per accendere i fornelli, ma finisce alla borsa di Amsterdam, dove viene ricomprato; quindi, le problematiche finanziarie e di mercato rimangono inalterate.
Infatti, come spiega il professor De Paoli, «non è che se il costo di produzione è minore allora è automatico che venga venduto a un prezzo molto più basso di quello di mercato». Il fatto è che «anche se in Italia producessimo a poco sopra il prezzo di mercato antecedente la guerra, i rivenditori si adatterebbero comunque al prezzo spot giornaliero attuale, che è altissimo. Quindi, se parliamo di contratti a breve termine, aumentare la nostra produzione non aiuterebbe a mitigare i prezzi».
«Il discorso però si fa più interessante – spiega il professore – per quanto riguarda i contratti a lungo termine, i cui costi non sono indicizzati sul prezzo spot. In questo caso, se si trovasse un soggetto disposto ad acquistare gas da un produttore italiano stipulando contratti a lungo termine, in quel caso si comprerebbe ad un prezzo decisamente al di sotto di quello attuale. E allora sarebbe molto vantaggioso. Rimane il fatto, tuttavia, che questo tipo di contratti sono meno appetibili dai compratori, e rimane sempre la tentazione, quando cambiano le situazioni di mercato, di contrattare nuove indicizzazioni».
In ogni caso questi contratti sono quasi sempre stipulati con altri rivenditori, non con il consumatore finale. Lo stesso Tabarelli ricorda che «anche se aiuterebbe ad aumentare l’offerta di gas, produrre di più non cambierebbe granché per il cittadino che paga le bollette».
Aspetti ambientali
L’attuale crisi sembra costringerci a ricorrere nuovamente all’utilizzo di idrocarburi (perfino a riaprire centrali a carbone) e perciò a compiere l’ennesimo sacrificio ambientale aumentando le emissioni di anidride carbonica. Verseremo altre libagioni inquinanti al prossimo inverno per difenderci dal freddo, e questo potrà anche mitigare il nostro senso di colpa, ma non l’impatto del riscaldamento globale che colpirà sempre più forte nei prossimi anni.
«Questo inverno i problemi li avremo comunque, e anche quello dopo – spiega Mario Tozzi, geologo, divulgatore scientifico e autore televisivo – ma francamente il problema vero ce l’ha fatto l’estate più siccitosa del millennio, i fiumi secchi, le alluvioni improvvise. La crisi ambientale non ammette perdite di tempo se vogliamo rispettare, come ci dicono tutti gli scienziati, gli obiettivi di diminuzione delle emissioni climalteranti».
Di fatto, sostiene Tozzi, scegliere di riaprire i pozzi è un approccio completamente sbagliato alla risoluzione del problema, perché produrre più gas per sottrarsi all’importazione estera «sarebbe come uscire dalla tossicodipendenza provando a cambiare spacciatore».
Tuttavia non bisogna perdere di vista un’altro aspetto, messo in luce da Tabarelli: tutto il gas che non produciamo non è che non lo utilizziamo, ma siamo costretti ad importarlo. «Questo significa in realtà produrre maggiori danni ambientali ed emissioni rispetto a produrlo da noi, perché all’estero non ci sono le tutele presenti in Italia. Quello che si fa adesso è trasportare e pagare un gas prodotto con tecnologie che sfruttano la fratturazione idraulica lungo tubi che percorrono centinaia di chilometri producendo ingenti danni ambientali».
Il punto davvero dirimente però è un altro. Lo sintetizza Tozzi: «Non c’è economia sana senza una biosfera sana». I due aspetti si legano perché il secondo (la biosfera) è condizione necessaria per l’esistenza del primo, per cui esiste una gerarchia delle ragioni che implica una priorità ambientale rispetto a quella economica. «Il problema energetico andava affrontato in precedenza. Oramai pensare di riaprire i pozzi è una scelta sconsiderata. Quei soldi li avremmo dovuti investire già in rinnovabili da dieci anni, e ancora non lo si fa per chiare resistenze dei gruppi petro-carbonieri».
Forse la questione rimarrà ancora aperta data la complessità e la rilevanza di entrambe le posizioni, ma non possiamo più permetterci di ignorare il problema. L’importante è scegliere, trovare una soluzione alla crisi, e farlo in fretta perché ormai non c’è più tempo da perdere.