Ora che tutti parlano del Mezzogiorno come l’Ohio d’Italia con la rimonta del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte – dopo i bagni di folla in maniche di camicia – prova a scrollarsi di dosso l’immagine di leader del partito del reddito di cittadinanza che ha fatto dell’assistenzialismo la sua carta vincente.
«Il Camaleonte» Conte, come lo definisce Repubblica in un longform, si gioca le ultime cartucce della campagna elettorale. E sia sul Fatto Quotidiano sia sul Corriere della sera, ci tiene a sottolineare che i grillini si rivolgono anche al Nord e che sono attenti a tutto il Paese. «Altro che assistenzialismo, siamo per lo sviluppo e la crescita, e posso dirlo forte dopo aver lasciato la guida del Paese con un +6,6% del Pil», dice.
Il merito del rimbalzo economico, spiega, è suo e non di Draghi. Ma, da Avvocato del Popolo, se la prende con quel Draghi che lo ha spodestato da Palazzo Chigi e che lui stesso poi ha fatto cadere, mettendo in guardia sul fatto che anche fuori dal governo l’ex capo della Bce potrà continuare a influenzare la politica italiana.
«In quanto autorevole esponente di mondi finanziari e bancari, che sempre hanno un peso nei processi decisionali italiani, sicuramente potrà avere un’influenza», spiega Conte al Fatto. «Ma io sono animato da uno spirito autenticamente democratico e mi auguro che tutte le decisioni avvengano in modo trasparente e che anche negli altri partiti si smetta di lavorare raccogliendo le agende dei salotti».
Conte sostiene che «ci sono forze politiche che non nascono come interpretazione di una comunità di sentimenti, ma come un gruppo chiamato a rappresentare gli interessi di alcuni segmenti di società o di alcuni gruppi imprenditoriali. E l’esempio più evidente è il Terzo Polo di Renzi e Calenda. Nel caso di Letta, invece, si fa riferimento all’agenda Draghi perché c’è un deficit di visione politica e di elaborazione progettuale».
Premier di destra e di sinistra, populista, sovranista e infine progressista, solletica la pancia del popolo grillino mostrandosi come uomo al di fuori fuori dai palazzi romani. Ma poi il Camaleonte ci tiene pure a sottolineare i suoi presunti meriti come premier, per cercare una sponda con le forze produttive. «Io sono il presidente del Consiglio che durante la pandemia, di fronte al collasso del Nord, intervenne con cinque variazioni di bilancio», ricorda sul Fatto. «Facemmo investimenti per oltre 130 miliardi, andati in gran parte proprio a quella parte del Paese aggredita per prima e in forma più grave dal Covid. E anche dei 209 miliardi del Pnrr, la maggior parte andrà alle regioni del Nord».
Ma la verità è che sopra Roma i Cinque Stelle non sono mai andati bene. «Siamo forti al Sud, ma è una mistificazione dire che il motivo è il reddito di cittadinanza», spiega Conte.
Eppure è lì che raccoglieranno il massimo dei voti. Tant’è che Conte sposa alla fine l’appello al voto utile del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, che ha detto: «Al Pd o al M5S, l’importante è fermare la destra». Conte risponde: «Il voto utile, a differenza di ciò che ha sostenuto Letta durante tutta la campagna elettorale, è quello al M5S».
E sul post voto, dice al Corriere: «Io non accetto di fare strategie con il gruppo dirigente del Pd». E poi lascia aperto uno spiraglio con «una progettualità del Pd diversa in cui non si parla di agenda Draghi e non si esprime questa vedovanza». Anzi, Conte non si pente della fine del governo: «Non mi pento della caduta di Draghi anche perché è evidente che sia stato lui a voler andare via».