Oltre l’unanimitàLa lentezza decisionale dell’Ue e l’obbligo di un nuovo Recovery Fund

Dopo mesi di tentennamenti, i leader dei 27 Stati membri sembrano concordi sul price cap al metano russo. Ma la decisione dovrà essere poi implementata. Intanto la crisi continuerà e bisognerà adottare l’unica soluzione possibile: assumersi il costo collettivo della recessione

Unsplash

Si discuterà finalmente di price cap sul metano nella riunione dei ministri dell’Energia dell’Unione Europea del 9 settembre e forse, forse, verrà assunta una posizione unitaria. Ma la decisione di imporlo alla Russia necessita del massimo di peso politico e quindi il dossier slitterà al Consiglio Europeo dei capi di governo del 23 ottobre. Si vedrà allora se una decisione concreta verrà assunta o bloccata o ancora rinviata. Poi si vedrà quanto tempo sarà necessario per imporla effettivamente alla Russia, che già lo rigetta per bocca di Vladimir Putin, se mai ci si riuscirà. 

Tempi lunghi, molto lunghi, mentre la crisi energetica morde da un anno. Ma almeno di price cap si parla in Europa. 

Invece, non si parla proprio, perché c’è un veto tedesco e dei paesi rigoristi, del provvedimento più urgente: un nuovo Recovery Fund finanziato con garanzia europea per fare fronte alla recessione certa dei prossimi mesi e agli insopportabili costi sociali del caro bollette. 

Le famiglie e le industrie europee dovranno pagare ben mille miliardi in più rispetto al passato per elettricità e metano. Si prospetta quindi una catastrofe economica e sociale ma l’Europa non intende fare nulla per alleviarla nell’unico modo possibile: assumersene i costi collettivamente.

Una lentezza e macchinosità decisionale che indicano per l’ennesima volta che il vero e grave problema dell’Europa oggi e da sempre è a monte, ben più che nelle scelte specifiche, che non ha fatto e che non fa, o che tira per le lunghe. Il problema serio dell’Europa è nella sua governance, nel suo cervello, nella modalità e nelle strutture nelle quali dovrebbe ma non riesce a esercitare una leadership unitaria, nel processo istituzionale che dovrebbe esprimere scelte e decisioni. 

Solo questo deficit sostanziale di governance spiega quanto altrimenti è inspiegabile: il ritardo di nove mesi – e altri ne passeranno ancora – nell’evitare le conseguenze devastanti di una crisi energetica che è iniziata nell’estate del 2021, ben prima della sanguinaria invasione russa dell’Ucraina. 

Guardiamo ai fatti: Mario Draghi ed Emmanuel Macron iniziarono nel marzo scorso – dopo mesi di crescita del prezzo del metano – a proporre un price cap sul metano. Proposta caduta nel vuoto. A fine maggio, sempre Draghi e Macron diedero battaglia nel Consiglio Europeo sul price cap: di nuovo nulla di fatto e un rinvio della discussione, non delle decisioni, a fine ottobre. Ma non basta. 

Dal marzo scorso fu chiaro che operavano tre gravi distorsioni del tutto artificiali nel processo di formazione del prezzo dell’energia che lo distaccavano incredibilmente dal sano rapporto tra domanda e offerta: il prezzo dell’elettricità determinato da quello della fonte energetica più cara, il metano; la borsa del metano di Amsterdam Ttf e la piattaforma Eex di scambi dell’elettricità di Lipsia, la più importante d’Europa. 

Ad Amsterdam si trattano quantità minime di contratti future, per un miliardo di euro o due al giorno ma è su questi scambi – ripetiamo, di futures, di scommesse nel tempo – che si basa il prezzo effettivo per tutta Europa del metano. 

È un meccanismo distorto che ricorda strettamente il mercato dei subprime che causò la crisi del 2008. All Eex di Lipsia invece è un algoritmo a determinare il prezzo di scambio dei futures di elettricità – di nuovo di scommesse – che devono essere coperti da garanzie bancarie; risultato: le imprese elettriche europee sono oggi esposte a debito per 200 miliardi di euro con una concretissima possibilità di ricreare un nuovo effetto Lehman Brothers come ha avvertito il ministro finlandese dell’economia Mika Lintilä. 

Per evitare questo disastro delle utility dell’energia il governo tedesco ha finanziato per circa 15 miliardi Uniper, che ha messo a bilancio nel primo semestre una perdita monstre da 12 miliardi, la Francia ha nazionalizzato Edf (70% del mercato energetico francese) acquistando azioni per 12 miliardi. Interventi governativi simili a favore delle utility energetiche aperte della Cechia, della Finlandia, della Svezia, dell’Austria e della stessa Svizzera. 

Sta di fatto che l’Unione Europea non sa decidersi a correggere queste tre distorsioni, non mette in discussione la formazione dei prezzi di metano ed elettricità sulla base di scommesse e algoritmi ad Amsterdam e Lipsia e solo ora non con tempi biblici, inizia a pensare di sganciare il prezzo dell’elettricità da quello del metano, ma chissà quando lo farà. Che questo sganciamento fosse indispensabile era già chiaro 12 mesi fa.

La ragione di questo immobilismo decisionale è duplice: innanzitutto gioca l’egoismo sovranista di singoli Stati, in primis i Paesi Bassi e gli Stati nordici, non esposti alle forniture energetiche russe perché largamente autonomi grazie ai giacimenti del nord. Poi gioca il fatto che la Germania che brancola nel buio ed è senza strategia a fronte del fallimento del suo poderoso modello economico basato sull’energia a basso costo comprata dalla Russia.

La seconda ragione è strutturale: il processo decisionale basato sul binomio Commissione-Consiglio Europeo è farraginoso, lento ed è esposto volutamente agli interessi egoistici dei singoli Stati. Il problema che genera le non-decisioni europee sulla crisi energetica non è la regola dell’ unanimità o del diritto di veto, ma la mancanza di un approccio unitario dei singoli Stati, in primis della Germania che si cura, oggi più che confusamente, solo dei propri egoistici interessi, che non ha e non vuole avere una visione continentale. 

A questo deficit decisionale strutturale, istituzionale, si somma poi una impostazione ideologica che sovrastima i principi liberisti ed ecologici a tal punto da perdere ogni contatto col reale. Lo dimostra il non paper firmato nel dicembre 2021, quindi a crisi energetica già iniziata da mesi, con processi inflativi già innescati, da Germania, Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lussemburgo, Irlanda e Lettonia che ben spiega il non decisionismo che approfondisce sino a oggi la crisi energetica in Europa. 

In quella presa di posizione si esprimeva alla Commissione il netto rifiuto a «sostenere alcuna misura che rappresenti un allontanamento dai principi competitivi della nostra progettazione del mercato dell’elettricità e del gas. Deviare da questi principi minerebbe la decarbonizzazione economicamente vantaggiosa del nostro sistema economico, comprometterebbe l’accessibilità economica e metterebbe a rischio la sicurezza dell’ approvvigionamento». Nei fatti un manifesto anti price cap contro lo sganciamento del prezzo dell’elettricità da quello del metano che spiega molto purtroppo di quanto avvenuto – o meglio, non avvenuto – sino a oggi.

È significativo che grazie a questa strenua e ideologica difesa della de carbonizzazione e del libero mercato oggi alcuni di questi paesi, Germania in testa, stiano riaprendo e sfruttando allo stremo le miniere di carbone.

X