Accettare di discutere del “caso Richetti” come di un episodio scabroso, sospeso del limbo di un futuribile e solo ipotetico accertamento giudiziario, significa di fatto accettare la legittimità della giurisdizione parallela del tribunale dell’Internet.
Di più, significa accettare che qualcuno, anzi chiunque possa essere rapito a mezzo stampa da un’Anonima Sequestri di ricattatori politicamente corretti e costretto a pagare il riscatto della resa e il pegno dell’obbedienza, in cambio della salvezza di quel che resta della vita privata, dopo la distruzione della reputazione pubblica. «Non sei un molestatore? Ma almeno ammetti di essere un porco?».
Soprattutto, accettare di parlare di questo caso con la bocca a culo di gallina dei progressisti doc – «La verità la decidono i giudici, però sono accuse gravi, Richetti deve fare chiarezza e non attaccare la donna che l’accusa» – significa accettare che il dossieraggio finto-femministico, che l’informazione dovrebbe denunciare, non propalare, sia qualcosa di diverso dal vecchio dossieraggio sessuale risciacquato nell’acqua santa dell’indignazione woke, di cui occorre dire che è una paranoia molesta, ma anche una straordinaria rendita mediatica per gli utilizzatori finali – i media, chi se no? – dell’eccitazione voyeuristica e del moralismo pecoreccio.
Per questo, di fronte a un boccone così succulento, come quello cucinato da Fanpage, smerciato sui menu di molta stampa e consegnato all’opinione volubile di amici e nemici, l’unica cosa politicamente e deontologicamente decente è di alzarsi da tavola e lasciare a ingozzarsi del fiero pasto i campioni del cannibalismo mediatico. E dire che quella sbobba è immangiabile e i suoi appetenti sono tossici. Non si tratta di fare gli schifiltosi, ma proprio di non volere e non volersi avvelenare. Non si tratta di non parlarne – infatti ne parlo – ma di parlarne per quello che è, cioè veleno.
Per chiunque faccia il mestiere o abbia l’hobby di scrivere delle cose della politica e del potere, domandarsi, fosse pure in interiore homine, se la storia raccontata sia vera oppure no, pur mancando un qualunque elemento in grado di distinguerla da un esercizio di political fiction, è un errore professionale, oltre che una colpa morale. Già rassegnarsi a percorrere il labirinto delle ombre disegnato dalla denuncia di una vittima senza volto a un carnefice senza nome (ma ovviamente riconoscibilissimo) è cadere nell’abisso della giustizia prêt-à-porter, con codici processuali e sostanziali alternativi a quelli che in uno stato di diritto, con una informazione responsabile, possono credibilmente inchiodare un molestatore o una calunniatrice alla responsabilità dell’abuso o della menzogna.
In un’Italia, in cui è ormai normale sostenere che la presunta innocenza di un accusato, di fronte a un’accusa non ancora dimostrata in giudizio, sia inversamente proporzionale alla gravità del reato e che l’onore della prova sia, per così dire, “a requisiti ridotti” quando c’è da mettere a posto un mafioso, un assassino o un molestatore, i reati sessuali provocano in modo particolare rigurgiti inquisitori. Non si può andare troppo per il sottile e l’accusato, soprattutto, deve stare al posto suo. Infatti, anche in questo caso, il fatto che Richetti abbia protestato la propria innocenza e accusato l’accusatrice di mendacio ha comportato un’ulteriore accusa di intimidazione e protervia maschilista nei suoi confronti. Come si permette di accusare chi l’accusa di un reato così orribile!
Però, anche questo fenomeno, cioè questa relativizzazione del principio di non colpevolezza è a valle del cedimento alla logica del delitto d’autore, per cui un uomo, a maggior ragione un uomo di potere, è sempre un potenziale molestatore o stupratore, come uno zingaro è sempre un potenziale ladro. Si può discutere, insomma, se e quanto la sua “potenza” diventi “atto”, ma non che rappresenti la sua più profonda e insidiosa identità. Così il politicamente corretto straborda nel razzismo e in quella sorta di totalitarismo penale extra-giudiziario del dossieraggio scandalistico a fin di bene, pedagogico e ovviamente dalla parte delle donne e contro il maschilismo cisgender.
Quindi la libera stampa non ha il diritto di indagare e raccontare vicende “sporche” per trarne la morale o per far luce sui delitti nascosti nelle oscure trame del potere? Sì, ma ne ha il diritto solo nella misura in cui ne porta anche la responsabilità, che è quella di tirare il sasso senza nascondere la mano, di far luce sulle vicende oscure, non di ingombrare tutto il cielo della politica con la coltre del sospetto, non di compravendere confessioni ricattatorie e avvertimenti a mezzo stampa, come quelli che l’accusatrice di Richetti – e da quel che dice, di mezza politica italiana – ha iniziato a lanciare da varie testate nazionali, che non sono né meglio né peggio di Fanpage e giocano al medesimo gioco magari pure convinte, oltre che di fare numeri importanti, di fare l’unico giornalismo possibile in questi tempi grami.