Difficile dire se l’argomento usato da Giorgia Meloni per giustificare il voto di Fratelli d’Italia in difesa di Viktor Orbán nel Parlamento europeo sia più risibile o più inquietante. In un’intervista a Radio Uno, Meloni infatti ha detto testualmente: «Orban è un signore che secondo le regole della sua Costituzione ha vinto le elezioni più volte, anche con un ampio margine, con tutto il resto dell’arco costituzionale schierato contro di lui. Quindi è comunque un sistema democratico».
Ovviamente, se il criterio con cui misurare il carattere democratico di una leadership fosse il rispetto della «sua Costituzione», dovremmo considerare democratici più o meno tutti i dittatori e gli autocrati della terra, da Vladimir Putin a Xi Jinping, che anche grazie a una modifica costituzionale regolarmente approvata nel 2018 è praticamente leader a vita. E questo è l’aspetto risibile dell’argomento.
L’aspetto inquietante è una semplice questione di proprietà transitiva: se per Meloni la «democrazia illiberale» ungherese è una democrazia a tutti gli effetti, è lecito domandarsi se ritenga dunque quel modello valido anche per l’Italia. E più in generale se oggi, quando rivendica il carattere pienamente democratico del suo partito e di un suo eventuale governo, intenda quel genere di democrazia lì.
Certo non rassicura sentirle usare l’argomento secondo cui Orbán sarebbe un fior di democratico perché rispetta la «sua Costituzione», cioè quella modificata da lui, a suo vantaggio, e sentirlo dire da una leader che in campagna elettorale ha lanciato proprio il tema della riforma costituzionale.
L’aspetto più preoccupante del modello Orbán, denunciato nel rapporto europeo contro cui hanno votato Fratelli d’Italia e Lega, sta proprio nella capacità di piegare leggi elettorali e norme costituzionali a proprio favore, così da trasformare gradualmente una democrazia in un regime, senza violare formalmente alcuna regola.
Se disponi di una maggioranza sufficiente, grazie al meccanismo elettorale che hai appositamente ridisegnato a tuo vantaggio e soprattutto a danno dell’opposizione (come denuncia puntualmente il rapporto europeo), non hai bisogno di violare le leggi: ti basta cambiarle. Non ti serve nient’altro. Che bisogno c’è di corrompere i giudici, ad esempio, se sei tu a nominarli? Nel rapporto europeo, peraltro, ci sono ampi dettagli anche sui mille metodi adottati per influenzare direttamente carriere, stipendi e benefit dei magistrati, così da evitare pure il rischio che qualcuno faccia l’ingrato.
Una volta conquistata la maggioranza necessaria a cambiare la Costituzione a proprio piacimento, come è accaduto in Ungheria, si capisce che è tutta discesa. In questo senso, dire come fa la leader di Fratelli d’Italia che Orbán rispetta «la sua Costituzione» è esattissimo: la rispetta perché è proprio la sua.
Se questo è il modello cui Meloni si ispira quando parla di presidenzialismo, abbiamo dunque molte buone ragioni per preoccuparci. D’altra parte, è esattamente la ragione per cui su queste pagine, da quando col taglio populista dei parlamentari si è sferrato il primo irresponsabile colpo all’equilibrio dei poteri, abbiamo sostenuto che occorresse subito una legge elettorale proporzionale: per evitare che il vincitore di domani potesse avere la tentazione di seguire l’esempio di Orbán. Ma chi oggi grida al pericolo, come fa Enrico Letta, fino a un attimo fa preferiva offrire sponda proprio a Meloni contro il proporzionale, gridando basta con «gli inciuci» e ripetendo che chi vince deve poter governare cinque anni.
Speriamo almeno che siano solo cinque.