L’Ungheria è diventata una «autocrazia elettorale» e non rispetta i valori democratici dell’Ue. La definizione del Parlamento europeo non ammette sfumature e interpretazioni. Ieri l’Eurocamera ha approvato il rapporto con cui richiede l’intervento della Commissione e del Consiglio per l’attivazione dell’articolo 7 dei trattati europei – quello che prevede la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’Unione europea. Ma c’è di più: per i deputati qualsiasi ulteriore ritardo nell’applicazione dell’articolo 7 equivarrebbe a «una violazione del principio dello Stato di diritto da parte del Consiglio stesso».
Mai prima d’ora un’istituzione europea era arrivata definire «non democratico» un Paese membro. Nella nota diffusa dai deputati, il Paese governato dal leader sovranista e populista Viktor Orbán viene definito «una minaccia sistemica» ai valori fondanti dell’Unione.
Il rapporto è stato approvato con 433 voti a favore e 123 contrari. Gli europarlamentari italiani di Lega e Fratelli d’Italia hanno votato contro.
Per la relatrice Gwendoline Delbos-Corfield (Verdi/ALE) non ci sono dubbi: «Le conclusioni di questa relazione sono chiare e irrevocabili: l’Ungheria non è una democrazia». Il testo infatti sottolinea come i valori sanciti dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea – su democrazia e diritti fondamentali – si siano ulteriormente deteriorati a causa delle politiche portate avanti dal governo ungherese.
Ma le stesse istituzioni europee avrebbero dovuto vigilare su quel che accade da anni dalle parti di Budapest: «La mancanza di un’azione decisiva da parte dell’Unione europea ha contribuito all’emergere di un regime ibrido di autocrazia elettorale, ovvero un sistema costituzionale in cui si svolgono le elezioni ma manca il rispetto di norme e standard democratici», si legge nella relazione.
Domenica è atteso l’annuncio della Commissione sul taglio ai fondi destinati al governo di Orbán. I commissari dovrebbero raccomandare al Consiglio dell’Unione europea di bloccare i finanziamenti regionali destinati a Budapest: è il cosiddetto meccanismo di condizionalità dello Stato di diritto – che lega l’arrivo dei fondi al rispetto dei principi fondamentali del’Unione – lasciando però aperta la strada a un compromesso.
Secondo i piani iniziali del bilancio Ue del periodo 2021-2027, l’Ungheria avrebbe dovuto ricevere circa 22 miliardi di euro di fondi per la coesione, e starebbe cercando di sbloccare altri 7 miliardi di euro. Ma già a luglio il commissario al bilancio Johannes Hahn aveva lasciato intendere che sarebbe stato opportuno congelare il 70% dei fondi da tre programmi di finanziamento destinati all’Ungheria a causa di violazioni dello Stato di diritto.
Di fronte al rischio di perdere quote così alte di finanziamenti, Budapest sembra voler assumere una postura conciliante. Intervistato dal Financial Times, in un articolo pubblicato questa mattina, il ministro ungherese degli Affari europei Tibor Navracsics ha detto che «il suo Paese è pronto a realizzare ulteriori riforme oltre alla creazione di un organismo anticorruzione, nell’ambito dei negoziati con Bruxelles per preservare miliardi di euro di finanziamenti. Un altro provvedimento includerà l’approvazione di un disegno di legge sulla trasparenza degli appalti già questo mese».
Il tema della corruzione è tra le principali criticità segnalate dall’Unione europea all’Ungheria. Non l’unica: sul tavolo ci sono anche l’indipendenza della magistratura, la libertà di espressione, la libertà delle università, la libertà di religione, il diritto alla parità di trattamento e il rispetto dei diritti per le minoranze, i migranti e i richiedenti asilo.
Inoltre oggi la Commissione europea proporrà oggi una nuova legge per rafforzare la libertà e il pluralismo dei media, con un nuovo regolamento che mira a proteggere la stampa dalle ingerenze politiche e dal controllo dei governi.
Anche in questo campo l’Ungheria ha peggiorato la sua condizione negli ultimi anni. Lo scorso luglio, la Commissione aveva segnalato che le azioni di Budapest sono contrarie a diverse leggi europee in materia di telecomunicazioni, audiovisivi e digitali, tra cui la direttiva sui servizi di media audiovisivi e la direttiva sul commercio elettronico
Stesso discorso anche sul grande capitolo del diritto all’aborto. A inizio settimana un nuovo provvedimento ha stabilito che – a partire da ieri, giovedì 15 settembre – il personale sanitario che si occupa di interruzioni di gravidanza dovrà far sentire alle pazienti che vogliono abortire il battito del cuore del feto, o comunque mostrare loro un segno delle funzioni vitali «in modo chiaramente riconoscibile». I medici dovranno produrre un documento che lo attesti: senza questo certificato la paziente non potrà accedere all’interruzione di gravidanza.
In Ungheria l’aborto è stato legalizzato nel 1953 e le leggi che lo regolano sono rimaste invariate da allora. Ecco perché il nuovo decreto è stato definito da Amnesty International come «un preoccupante passo indietro».
Va ricordato che già nel 2018, il Parlamento aveva adottato una relazione per delineare 12 aree di preoccupazione e avviare la procedura di attivazione dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea per determinare l’esistenza di un chiaro rischio di grave violazione dei valori europei in Ungheria.