Federico Cina, Magliano, Andreadamo, Jordan Luca: negli ultimi anni, complici i social e una rinnovata attenzione al sistema moda – e agli eredi che un giorno sostituiranno i grandi nomi alla guida delle maison – è apparso nei radar degli addetti ai lavori un nuovo alfabeto stilistico, fatto di nuovi brand italiani o made in Italy capaci di interpretare vecchi desideri, o farne nascere di nuovi. Un trend che è arrivato anche oltre i confini nazionali, visto che Irina Shayk sfoggia i crop-top Andreadamo mentre è in giro a Los Angeles, o Dua Lipa esce per andare a cena con i vestiti tie-dye di Des Phemmes, dietro il quale si nasconde Salvo Rizza. Ma quali sono, dopo questa prima ondata rinfrescante di talenti, i più interessanti nomi della nuova leva modaiola?
Lessico Familiare
Dietro il nome di uno tra i più famosi romanzi di Natalia Ginzburg, Lessico Familiare, ci sono ad esempio Alice Curti, Riccardo Scaburri e Andrea Petillo, 28enni basati a Milano, che immergono le loro creazioni in un realismo magico che sembra più geolocalizzato tra i giardini di Balmoral che furono. Nella realtà, come suggerisce il nome, l’appeal del brand è casalingo, le collezioni profumano di tovaglie stese ad asciugare e caffè appena fatto, mentre tutto è realizzato, come si richiede ad un brand agli inizi, nato nel 2020, in casa, in quell’appartamento dei due ragazzi, che vivono insieme da 10 anni.
A fare da testimonial, nel rispetto di questa filosofia, sono amici, familiari, parenti, ma anche anime affini al progetto, come la ex modella Benedetta Barzini, che i ragazzi hanno incontrato tra i banchi di scuola della Naba (ad oggi Barzini è anche accademica, insegnando in diverse scuole sparse per lo stivale). Capi oversize, come quelli che spesso si indossano per rilassarsi tra le quattro mura casalinghe, il debito più importante è però quello con l’autrice italiana Ginzburg, della quale i fondatori del brand hanno divorato il libro più famoso, applicando quella lezione di ricostruzione di un vocabolario sentimentale, alla moda.
L’approccio sostenibile – oggi imprescindibile per qualunque brand che voglia farsi definire come contemporaneo – passa per il riutilizzo di pezzi dismessi: l’atto della progettazione non comincia quindi da un fantomatico bozzetto ideale, ma dalla disponibilità del materiale. Vecchie tende, canovacci che avevano bisogno di essere rammendati, si fanno base per un patchwork creativo, sono sublimati e resi più voluminosi, si aggiungono arricciature e orpelli, decostruendo per arrivare all’anima del capo, non pensato per rispondere a delle particolari esigenze di praticità, ma più simile ad una coperta di Linus emozionale. Terzi classificati all’ultima edizione di Who is on Next, il concorso per la scoperta di nuove voci lanciato da Vogue Italia, i tre producono una collezione season-less, che abbraccia e ingloba man mano pezzi nuovi.
Setchu
Il primo classificato dello stesso concorso, sostenuto da Alta Roma, è stato invece Setchu, ed è facile capire perché: cittadino del mondo, il suo fondatore Satoshi Kuwata viene da Kyoto, ma è già passato per le principali capitali della moda (Parigi, Milano, Londra, New York) dove ha collaborato con grandi maison e nomi simbolo dell’hype nello streetwear, da Kanye West a Givenchy passando per Gareth Pugh ed Edun.
Un curriculum vitae arricchito, è il caso di dire, da una sapienza sartoriale sviluppata nel sancta sanctorum dell’abbigliamento su misura a Savile Row, strada londinese dove si affastellano i sarti per gentleman (lui ha lavorato da Huntsman & Sons). «Lavorare a Savile Row mi ha dato la capacità di progettare in modo sostenibile per ciò che riguarda il consumo di tessuti e la costruzione di capi di lunga durata: ho affinato la capacità di progettare oggetti semplici in modo che le fabbriche possano riprodurli facilmente mantenendo bassi costi e minimo spreco», riflette il designer. Un compromesso tra culture, quella occidentale e quella orientale, i capi si caratterizzano per un minimalismo dotato di forte personalità – la maggior parte della produzione è dislocata tra Italia e Giappone e i tessuti, ad eccezione di quelli delle t-shirt, vengono da una fabbrica portoghese che utilizza pannelli solari per creare energia pulita.
Di conseguenza, il rigetto dello spreco tipico del fast fashion è uno dei pilastri del brand, che, nella sua cultura d’origine, ha una parola poetica per raccontarlo: Mottainai. Lemma usato dagli ambientalisti giapponesi, il suo significato è quello di un “rammarico per lo spreco”, condito del conseguente invito a ridurre, riutilizzare, riciclare: un diktat preso sul serio da Satoshi, che utilizza spesso tessuti riciclati o ecologici. «Volevo creare oggetti che non fossero solo cool», spiega il designer.
«Il mio obiettivo è progettare qualcosa che le persone vogliano continuare a usare e sono profondamente convinto che non importa dove vivono le persone, i consumatori di beni di lusso vogliono sempre cose simili: pezzi di qualità e senza tempo. Io stesso sono un minimalista e amo gli oggetti con cui non mi annoio mai. Quanto a me, ho voluto concepire un marchio di moda e lifestyle di lusso costruito su un’identità forte ma basato su capi semplici. Questo è il motivo per cui ho creato Setchu».
Simon Cracker
Un approccio passatista, nel senso di fascinazione romantica verso il passato, è invece quello di Simon Cracker, brand dietro il quale si cela lo stilista Simone Botte (classe 1985) «Mio nonno mi ha sempre detto di non buttare una cosa perché mi sarebbe tornata utile in un’altra forma» spiega Botte. «Ogni stagione mi faccio ispirare dai ricordi. Belli o brutti che siano, ma senza nostalgia. Senza il passato non si può costruire il futuro. Tutto ciò che mi colpisce e mi attrae fa da cornice. Questo mi guida in una specifica direzione». E la sua specifica direzione è abbastanza punk: il nome del brand è infatti ispirato alla parola crack, rottura: ricreare qualcosa di rotto, dandogli una nuova vita: oltre il 90% di tessuti e scampoli destinati al macero sono infatti la colonna vertebrale del brand: lenzuoli in lino e cotone che arrivano da vecchi corredi, camicie upcycled, maglieria realizzata con i fine rotoli di lana e seta, normalmente scartati, capi in jersey riciclato arricchiti da decori.
La variante punk di Cracker, sposa però una gentilezza – una punkindness, nelle parole del brand – assai eversiva nell’epoca dei leoni da tastiera e dei discorsi urlati e divisivi. Nella collezione dedicata alla s/s 2023 l’estetica cruda tipica del punk – orli non finiti, spille da balia, graffiti – si abbina sorprendentemente bene con balze e ricami che ingentiliscono, mentre i tessuti che ricordano i quaderni delle scuole elementari e stampe fatte a meno riportano con piccoli gesti all’era innocente dell’infanzia.
Dhruv Kapoor
Non italiano, ma cresciuto a pane e stile, è invece Dhruv Kapoor, indiano classe 1988 che sfila però durante la fashion week milanese (la camera della Moda lo ha premiato con il Young designer award nel 2019): arrivato nella città della madonnina nel 2011 per un master in Marangoni, nel 2013 è arrivato da Etro, lavorando del team che si occupa dell’abbigliamento femminile. Molto amato in patria – nel 2015 è stato destinatario del Vogue India Fashion Fund, mentre il GQ nazionale lo ha selezionato tra i 50 giovani indiani più influenti nel 2017 – Kapoor non è per nulla impaurito dalle stampe e dai colori forti.
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Le collezioni, realizzate spesso con il 40% di materiali scartati da aziende indiane, sublimano la sapienza tessile del paese attraverso ricami e disegni realizzati da artigiani del posto: lo streetwear viene trasfigurato attraverso pezzi classici del suo vocabolario stilistico, e che però si arricchiscono di ricami e paillettes, linee affilate si sposano con un massimalismo d’intenti, guardando agli Anni ’70, decade nella quale esplose l’espressione del sé anche attraverso vestiti eclettici, dagli hippy in poi. Incentrato sull’abbigliamento per lui, l’approccio è però necessariamente genderless, e non stupirebbe vedere delle donne sfoggiare i suoi bomber floreali o i capispalla con fantasie psichedeliche. D’altronde, in tempi difficili come questi, l’ottimismo – almeno tramite il guardaroba – diventa forse l’unica via di fuga da una realtà che appare sempre meno promettente.