207 Scalini di meraviglia. Una scultura, un monumento o un’opera di land-art? Difficile definire cosa sia riuscito a fare – o meglio, cosa sta facendo da quarant’anni – Nicola Di Cesare a Grosio, in Alta Valtellina, tra cielo e montagna. Nicola arriva dall’Abruzzo (è nato a Pizzoferrato nel 1950) in questo piccolo paese di 4.000 abitanti negli Anni ‘70: dopo aver incontrato la moglie (originaria del posto) e dopo aver lavorato come cuoco e ferroviere anche in Svizzera, decide di costruirsi una nuova casa alle pendici della montagna, sulla Alpi Retiche.
Nel 1981, a lavori ultimati, si trova di fronte all’inaspettato problema di gestire questa brulla e rocciosa montagna antistante la casa. Non soddisfatto delle proposte dell’impresa decide di pensarci lui stesso e costruisce il primo muro, che decora con un mosaico. Dotato di forte senso pratico e decorativo, del tutto autodidatta, impiega la propria creatività per dare vita al suo mondo abbarbicato sulla montagna, che da allora continua a costruire, uno scalino dopo l’altro.
Nessuno della famiglia lo aiuta, e Nicola non accetta l’aiuto di nessuno: quei muri, quegli scalini, sono i viaggi che non ha mai fatto, il suo modo per evadere dalla quotidianità, creare qualcosa di bello e tutto suo. Il risultato è un’opera architettonica monumentale che si estende per circa cinquanta metri sulla montagna, che decora con uno stile che unisce il naif di Ligabue alla dimensione onirica di Gaudì: al posto delle rocce e delle sterpaglie dopo 40 anni troviamo sentieri, grotte, vigne, panche, fontane e belvedere impreziositi con vasi, sculture e mosaici policromi.
Un piccolo Eden personale, che generosamente l’artista condivide, lasciando entrare chi lo desidera. Non a caso le persone del luogo chiamano questo luogo il “Castello incantato” e si riferiscono all’artista come il “Gaudì di Grosio”. A dir la verità Nicola non conosceva il lavoro di Gaudì e non è mai nemmeno andato all’estero, se non in Svizzera per lavorare negli Anni ’70. Il suo mondo è infatti lontano dal modernismo dell’Art Nouveau, anche se con l’artista catalano condivide quell’essere «plasmatore della pietra, del laterizio e del ferro».
A dire poco mirabile l’ingegnosità materica e tecnica maturata da Nicola negli anni: l’artista si è costruito una carrucola per portare in cima i materiali e impiega per lo più materiali di recupero. I tasselli rossi dei tanti mosaici del “Castello” sono realizzati con frammenti di recupero di rifrangenti da auto incidentate, mentre quelli blu derivano dal vetro di bottiglie di succhi di frutta.
Nicola Di Cesare è una persona gioiosa e disponibile, che scambia con gli ospiti scarne, ma sempre simpatiche e accoglienti battute. A parlare è il suo lavoro, la sua “art brut”, spontanea e viva, che non riesce a trattenere e che lo spinge a dedicarci da decenni tutto il suo tempo libero. Questa grandiosa opera finisce con l’essere la voce stessa dell’artista, delle sue emozioni che condivide con tutti noi: ovunque ci si giri si scoprono scritte incise sui parapetti, sugli specchi, sugli scalini e sulle pavimentazioni in pietra: detti popolari, pensieri e auguri, che raccontano un progetto che è diventato una ragione di esistere e un modo di intendere l’esistenza.
«Se oggi seren non è, doman seren sarà, se non sarà seren si rasserenerà». Poco senso ha quindi domandare all’artista il perché di tale progetto. Sarebbe come chiedere a una persona il perché del colore dei propri occhi. Allorché interpellato, spiega ironicamente che il suo lavoro gli ha salvato il matrimonio e che non gli interessa la fama, che arriva sempre ai morti. L’unica cosa che conta e che l’artista si auspica è l’avere altri 41 anni per completare il progetto, arrivando in cima alla montagna. Noi non possiamo che augurarglielo affinché il Castello di Nicola continui a crescere, così com’è successo per la Sagrada Familia: questo luogo fa sognare e i sogni non hanno inizio e non hanno fine.