Se deve essere «patriottismo repubblicano», non si vede cosa possano averci a che fare i sovranisti. Ma su una frase di Carlo Calenda ieri si è montata una polemica poi rivelatasi infondata. Il governo di unità nazionale «possibilmente guidato da Mario Draghi» cui il frontman del Terzo Polo pensa è chiuso a sovranisti e populisti. Stop. Altro che apertura a Giorgia Meloni, come era parso dopo che Calenda, a una radio, aveva alluso a un governo di unità «anche» con la leader di Fratelli d’Italia.
Enrico Letta ne aveva subito approfittato («Calenda guarda a destra») innescando il consueto tam tam dei suoi su Twitter, e si era fatto vivo pure il mite Benedetto Della Vedova, ma siamo in campagna elettorale e ogni scherzo vale.
Ci sono ex renziani (ma ex renziani “tosti”) che hanno menato duro, come Anna Ascani: «Non gli basta aiutare la destra indebolendo il centrosinistra nei collegi dove si eleggono 200 parlamentari e vince chi arriva primo. Calenda arriva a teorizzare il governo con la Meloni! Del resto chi dice che non è di destra né di sinistra è di sempre destra. Tutto torna».
Però poi si è chiarito che la linea di Calenda è sempre quella dell’intervista al Corriere della Sera di metà agosto nella quale affermava che chiunque dovesse prevalere, al governo non durerebbe «più di sei mesi» viste le «enormi contraddizioni interne», mentre l’Italia ha bisogno di proseguire sulla strada interrotta «in modo incosciente» di un governo Draghi o che al metodo Draghi si ispiri. Con una coalizione i cui pesi verrebbero stabiliti dal voto, ma che tagli le ali estreme e metta assieme i partiti più responsabili.
Ci sarà nel nuovo Parlamento una maggioranza “responsabile” chiusa dunque alle “estreme” (ovvio riferimento al bipopulismo di Fdi e Conte)? Questa è la posta in gioco il 25 settembre. È chiaro che molto dipenderà dal peso della Meloni, ma anche da cosa succederà a un Pd che nelle ultime ore sta progressivamente scivolando su posizioni che fanno persino rimpiangere i Ds e il Pds, visto l’avvicinamento di merito a Giuseppe Conte (vedi il «giù le mani dal reddito di cittadinanza» intimato da Dario Franceschini) e l’imprevedibile distacco dalle ragioni del riformismo che parevano consolidate fin dall’epoca di Walter Veltroni – per cui l’altro giorno si è avuta prima un’intemerata anti-Blair di Enrico Letta e più una di Andrea Orlando, all’epoca portavoce del Pd diretto dallo stesso Veltroni.
È nella dinamica di una campagna elettorale, quella del Nazareno, tutta giocata sulla contrapposizione bipolarista contro una Meloni che ringrazia per la collocazione sul piedistallo da parte del suo avversario principale, che si è pure dimenticato di candidarsi alla guida del governo.
Nella foga, il segretario del Pd ieri ha chiesto alla Meloni di togliere la fiamma dal simbolo di Fratelli d’Italia, riprendendo così una polemica di venti giorni fa che non aveva scaldato nessuno ma che evidentemente egli ritiene possa mobilitare i “gggiovani” (che Giorgio Almirante non sanno chi sia).
E insomma si assiste ad un surreale rinculo verso propaganda e contenuti novecenteschi proprio mentre si sta andando verso il secondo quarto del 2000. A venti giorni dal voto, il distacco della coalizione messa su da Letta (Di Maio-Fratoianni-Bonino) appare sempre più vistoso: Swg segnala che è dietro quasi di cinque punti rispetto a Fdi. Ma il Pd insiste nella sua risacca politico-culturale, e forse per Carlo Calenda questa è una buona notizia.