Tutti gli ex uomini del presidenteI 12 oligarchi e manager russi morti in modo misterioso dall’inizio della guerra

Alcuni, come Ravil Maganov, il più recente, sono vittime di cadute all’apparenza casuali. Altri sarebbero stati uccisi dai parenti (poi sucidatisi), altri ancora sono finiti uccisi in circostanze strane. Che dietro ci sia la mano di Vladimir Putin è più di un sospetto

di Steve Harvey, Unsplash

Putin batte Agatha Christie? Dieci piccoli indiani è il libro con cui la scrittrice inglese, vendendo 110 milioni di copie, batté ogni record di vendite, raccontando la storia di 10 ospiti di una villa in un’isola del Devon che muoiono uno a uno secondo i tempi e le modalità di una macabra filastrocca. Invece, sono già 12 gli oligarchi e manager russi che dall’inizio dell’anno sono morti in modo misterioso.

Numero a parte, ci sono almeno quattro importanti differenze. La prima è che lo scenario non è una isoletta senza comunicazioni, ma l’intera Europa e pure gli Usa. Un’altra è che il ritmo che scandisce i decessi non è una canzoncina, ma quello delle notizie della guerra in Ucraina. Una terza che, mentre nei Dieci piccoli indiani il responsabile resta insospettabile fino alla fine, mentre qua chiunque abbia familiarità con la Russia suggerisce che dietro ci deve essere Putin. E una quarta, soprattutto, è che quella di Agatha Christie è un romanzo, qui invece è tutto vero. In compenso, sono proprio i modi curiosi e grotteschi di queste dodici morti che sembrano evocare i rozzi versi di quei delitti.

L’ultimo è Ravil Maganov. Vicepresidente e presidente del Consiglio di amministrazione di Lukoil, è morto dopo essere «caduto» dalla finestra del sesto piano di quello stesso Ospedale Clinico Centrale della Direzione Amministrativa del Presidente della Federazione Russa di Mosca in cui era appena morto Gorbaciov e che è considerato il miglior ospedale del Paese. L’Ospedale del Cremlino, lo chiamano: roba rigorosamente per vip. Aveva 67 anni, e alla Lukoil si dicono «profondamente rattristati nell’annunciare che Ravil Maganov, presidente del Consiglio di Amministrazione di Pjsc Lukoil, è morto dopo una grave malattia. Ravil Ulfatovich ha dato un contributo inestimabile non solo allo sviluppo della Società, ma all’intera industria petrolifera e del gas russa. Le molte migliaia di dipendenti di Lukoil sono profondamente rattristate per questa dolorosa perdita, e esprimono le loro sincere condoglianze alla sua famiglia».

Nessun riferimento, dunque, alle circostanze del decesso: a meno di non considerare «grave malattia» l’appartenere al ceto degli oligarchi e manager in un momento come questo. Il sito delle forze dell’ordine Mash aggiunge di problemi al cuore e di una grave forma di depressione. La Tass specifica ulteriormente: infarto, e assumeva antidepressivi. Insomma, ci sono due ipotesi. Uno: lo hanno buttato di sotto perché il board di Lukoil da lui preceduto a marzo aveva criticato l’Operazione militare in Ucraina, chiedendo «la rapida fine del conflitto armato» e esprimendo «sincera vicinanza a tutte le vittime». Due: disperato per essere numero due del secondo colosso petrolifero russo, il poveretto si è sentito male mentre si stava affacciando ed è andato di sotto.

Ma è il numero 12, si diceva. Il primo della lista è morto il 29 gennaio, prima ancora che la guerra inizi. È Leonid Shulman, 60 anni, capo del servizio di trasporto di Gazprom Invest. Lo trovano morto nel bagno della sua villa, nel sobborgo moscovita di Leninsky, in un villaggio di categoria extra lusso. Accanto, un biglietto in cui si lamentava del dolore per una gamba rotta. Secondo i Servizi ucraini, aveva profondi tagli sul corpo insanguinato. Secondo Fortune, era nei guai per un’indagine su frode alla Gazprom.

Il 25 febbraio, primo giorno di guerra, arriva il secondo. È Alexander Tyulyako: 61 anni, vicedirettore generale della cassa di Gazprom. Pure lui a Leninsky, impiccato nel garage del suo cottage. Anche lui ha accanto un biglietto, di cui però non è rivelato il contenuto. Il servizio di sicurezza di Gazprom caccia infatti via tutti dalla scena del delitto; soprattutto la Polizia.

Il 28 febbraio, il terzo della lista è Michael Watford: 66 anni, vero nome Mikhail Tolstosheya, origini ucraine. Dopo aver fatto fortuna con petrolio e gas, nel 2000 è emigrato nel Regno Unito, dove ha cambiato cittadinanza, nome e attività professionale, dandosi all’immobiliare. Anche il suo cadavere è in un garage, nella sua casa del Surrey. La polizia inglese esclude un omicidio, ma definisce la morte «inspiegabile».

Il 23 marzo il quarto è Vasily Melnikov: 43 anni, proprietario di una società che importa attrezzature mediche e che si chiama Medstom. Non c’è solo il cadavere suo, ma anche quello della moglie e dei due figli, nel loro appartamento di lusso a Nizhny Novgorod. Causa della morte: ferite da taglio inflitte con coltelli trovati sulla scena del crimine. Per le sanzioni, la Medstom era al collasso.

Il 18 aprile, il quinto della lista è Vladislav Avaev: 51 anni, vicepresidente di Gazprombank ed ex-funzionario del Cremlino. Anche in questo caso, accanto al suo cadavere nell’appartamento di Mosca ci sono quelli della moglie e di una figlia 13enne. E anche una pistola, con cui prima le avrebbe uccise e poi si sarebbe suicidato. «Lo ha ucciso Putin» è la chiara accusa di Igor Volobuev: già vicepresidente di Gazprom, scappato nella natia Ucraina per combattere contro gli invasori.

Il 21 aprile, tocca a Sergeij Protosenya: 55 anni, top manager di Novatek, secondo colosso dell’energia in Russia dopo Gazprom; un patrimonio personale stimato 400 milioni di euro. Il suo è ritrovato, insieme a quello della moglie e della figlia 18enne a Lloret de Mar, 70 km da Barcellona, in una villa affittata per Pasqua. Lui strangolato; le due donne pugnalate. Il figlio, che stava in Francia, esclude assolutamente un omicidio-suicidio. Suo padre, spiega, voleva troppo bene alla ragazza.

Il primo maggio, siamo a sette. Andrei Krukowski, 37 anni, direttore del resort sciistico della Gazprom a Krasnaya Polyana, muore nel Caucaso. Secondo la Tass, «è caduto da uno scoglio», a Sochi. «Amava le montagne e vi trovava la pace». «La tragedia è avvenuta sulla strada per la fortezza di Akzepsinskaya».

Il 7 maggio, l’ottavo della lista è Alexander Subbotin: 43 anni, ex-ad di Lukoil ma membro del Consiglio di amministrazione, oltre che fratello di Valery Subbotin, ex vicepresidente per l’approvvigionamento e le vendite petrolio della stessa Lukoil. Muore per insufficienza cardiaca, dopo essersi sottoposto a un trattamento sciamanico a Mytišči, a 19 km da Mosca. Era una “cura” che faceva spesso per curare gli eccessi alcolici: tagli in cui veniva iniettato il veleno di rospo, per far passare la sbronza col vomito e al contempo rafforzare il sistema immunitario. Nel contempo, gli sciamani dovrebbero chiamare gli spiriti sacrificando alcuni galli e bagnandosi con il loro sangue. Ma stavolta si è sentito male e lo sciamano Magua, con la moglie, invece di chiamare subito i soccorsi ha preferito provare col Corvalol, sedativo a base di erbe naturali.

Il 27 giugno, il nono è Yevgeny Palant: 47 anni, di origine ucraina, proprietario di una compagnia di cellulari A-mobile attiva in Abkhazia, e anche finanziatore di un Teatro Drammatico Russo nella stessa repubblica separatista dalla Georgia. Vicino a Mosca, il suo cadavere nudo è ritrovato vicino a quello della moglie Olga, 50enne, dalla 20enne figlia Polina. Scoperto che voleva lasciarla, la donna gli avrebbe dato 14 pugnalate, poi avrebbe disegnato due cuori col sangue sul muro, poi si sarebbe suicidata: così assicurano media filo-governativi.

Il 5 luglio, il decimo è Yuriy Voronov: 61 anni, titolare di Astra-shipping, un’impresa di logistica con vantaggiosi contratti con Gazprom nell’Artico. Il suo cadavere viene trovato a galleggiare nella piscina della sua lussuosa villa, con una pallottola in testa, e una pistola vicino. Gli inquirenti attribuiscono la morte a una «disputa con soci di affari», dal momento che secondo la vedova il marito si lamentava di gente che lo stava truffando. Ma le telecamere di sicurezza non mostrano nelle ore precedenti né visite, né intrusi.

Il 14 agosto, l’undicesimo della lista è Dan Rapoport: 52 anni, finanziere e broker di origine lettone, che dopo aver fatto fortuna in Russia se ne è andato ed è diventato un vivace critico del governo di Putin. Nella notte, precipita da un palazzo di Washington. Al momento della morte veste un cappello e infradito arancioni ed ha 2.620 dollari in contanti, ma né portafoglio né carta di credito. Le circostanze del decesso sono definite «estremamente sospette» da Bill Browder: ex finanziere americano con base a Mosca, figlio di un famoso leader del Partito Comunista Usa, divenuto poi uno dei principali alfieri delle sanzioni contro la Russia di Putin dopo l’uccisione del suo avvocato russo Sergei Magnitsky, avvenuta nel 2009.

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