Nella mia scena preferita di Siccità, un adulto sexta un’ex compagna di scuola che ha memorizzato come «Liceo classico»; lei ha memorizzato lui come «Fabiana yoga». Entrambi siamo noi, noi cui hanno consegnato la possibilità del flirt perpetuo e perpetuamente senza impegno, noi che se poi c’incontriamo in carne e feromoni non sappiamo cosa dirci, noi che chi ce lo fa fare di prenderci il disturbo di vederci se possiamo stare ognuno a casa propria a scriverci «mandami una foto di tette».
Nella mia scena preferita di Siccità, la moglie di lui racconta questo misero passatempo del marito con la spietatezza con cui le donne che non hanno tempo per scrivere alla posta del cuore liquidano i capricci di chi smania per sentirsi vivo: «Scrive al suo sé stesso liceale, che tenerezza».
Nella mia scena preferita di Siccità, un tizio che è in galera da venticinque anni, e ci si è accomodato come in certe posizioni stortignaccole in cui il mal di schiena ci dà meno fastidio, se solo non decidiamo mai di raddrizzarci, quel tizio lì esce di galera per distrazione, e a quel punto decide di cercare sua figlia, e per farlo entra in un bar, in un bar romano di questo decennio, e chiede un elenco del telefono.
Nella mia scena preferita di Siccità, quello stesso tizio vaga per il letto del Tevere essiccato (sennò cosa s’intitola Siccità a fare) e gli compaiono una palestinese incinta portata a bordo d’asino da un tizio con la barba, e non è vero quel che diceva quella serie tv, che i toscani hanno rovinato questo paese: lo sanno tutti che questo paese l’ha rovinato Fellini.
Nella mia scena preferita di Siccità, un tizio muore di questo malanno che ancora nessuno sa cosa sia e se dipenda dal fatto che non piove da troppissimo tempo, e il fidanzato del tizio morto torna a casa e mette a tutto volume Mi sei scoppiato dentro al cuore, ed era da quando aveva chiuso il Plastic che non vedevo una così novecentesca busoneria.
Nella mia scena preferita di Siccità, il tizio che parla professionalmente della siccità è il clone d’uno qualunque dei mille virologi vanesi che abbiamo visto in questi due anni di realtà – questi due anni in cui Virzì credeva di fare un film di fantasia che fosse possente allegoria del Covid e poi s’è ritrovato con la siccità vera e ora scriveranno «ha fatto un film di denuncia sociale sul dissesto idrogeologico» e poveraccio – il tizio taleqquale a quelli che improvvisamente ci siamo trovati in tv e sui rotocalchi al posto dei concorrenti di reality, ma laureati, quel tizio lì non può che finire inghiottito dalla romanità (ve l’avevo detto che Fellini aveva rovinato questo paese), e quindi in un idromassaggio con una Kardashian italiana (Siccità esce mentre Kim Kardashian è accusata di sforare la quota d’acqua concessa ai residenti della California: avrà un virologo del Kansas nell’idromassaggio); nella mia scena preferita di Siccità, la diva al professore fa il più sensato commento che si possa fare a chi si ostini a pubblicare libri: «Ma quante pagine hai scritto?».
Nella mia scena preferita di Siccità, l’attore che s’instagramma a torso nudo ma parlando di temi importanti e poi si conta i cuoricini e poi cita Coelho e poi si sente non sufficientemente considerato da uno star system che non ne coglie il potenziale, quel tizio lì è Alessio Boni, è Stefano Massini, siamo noi, noi che ci chiediamo se avremmo preso più cuoricini con una citazione della Ernaux, noi che non abbiamo mai il sospetto di renderci ridicoli, noi che ci costerniamo, c’indigniamo, c’impegniamo.
Nella mia scena preferita di Siccità, una cornuta va a fare una piazzata al marito in flagranza d’adulterio, e venendo via gli urla «Cùrati il narcisismo patologico, affrontalo un percorso», e io mi attendo mesi, forse anni, di gif inconsapevoli, di gif postate da donne che scambiano la cornuta per colei che fa la battuta, mica per colei che ne è oggetto, che pensano che «narcisismo patologico» significhi che lei ha capito tutto di lui, mica che lei è una che parla per frasi fatte e bisognosa di dare dignità di diagnosi al proprio banale essere disamata, mi aspetto il disastro generalizzato di spettatrici inconsapevoli di quando una canzone, un personaggio, un cliché parlino di loro, di spettatrici convinte d’essere sempre e comunque vittime, vittime ma con piglio, vittime ma spiritose, vittime ma lucide, e mai consapevoli che non sono nessuna di queste cose, mai consapevoli d’essere il bersaglio degli autori, ma anzi certe d’esserne le eroine.
Nella mia critica preferita di Siccità, qualcuno scriverà pure che i registi non si misurano in base a quel che fanno dei due più grandi attori italiani, ché a dirigere Silvio Orlando e Valerio Mastandrea ero buona pure io; nella mia critica preferita di Siccità, qualcuno dirà pure che i trucchi di radianza che sai fare con gli attori si vedono quando Max Tortora diventa il Sordi di Una vita difficile.
Nella mia conseguenza preferita di Siccità, i genitori dei bambini entomofobici (cioè cui fanno schifo gli insetti, come a tutti) stanno già scrivendo un comunicato indignato per la mancanza d’un avviso al principio del film che tuteli i puccettoni di mamma loro dalla visione degli scarafaggi, che in effetti fanno schifissimo e quasi mi hanno fatto venir voglia di pulire casa.
Nella mia conseguenza preferita di Siccità, almeno un genitore indignato per la messa a rischio della serenità di puccettone sarà uscito dalla proiezione veneziana del film, e ci aspettano tre settimane di polemiche da qui all’uscita nei cinema (sì, Siccità esce al cinema, mica sulle piattaforme, perché evidentemente il Novecento non è mai finito: finalmente una buona notizia).
Nella mia conseguenza preferita di Siccità, ci saranno dei veneti stolidi quanto lo furono i fan di Zerocalcare col romanesco, veneti che s’offenderanno perché il veneto è sottotitolato, e ci toccheranno almeno un paio d’editoriali sulla ricchezza dei dialetti e l’importanza di battersi contro la grande omologazione, quante belle citazioni di Pasolini che non vedevamo l’ora di leggere, che occasione preziosa.
Infine, nella mia conseguenza preferita di Siccità, vedo prevedo e stravedo almeno due polemiche sul fatto che Paolo Virzì ha evidentemente diretto un apologo di femminicidio, in cui con gli assassini, poricristi, si simpatizza, o comunque si pensa che non sono cattivi, che la situazione gli è sfuggita di mano, che la vita è difficile per tutti. Mi sembra già di leggerle, le professioniste dell’indignazione, e cosa si può volere di più, a parte la pioggia.