Dopo l’ennesimo revival di “Bella Ciao” come inno di lotta ai quattro angoli del mondo, nemmeno fosse il passaparola della parte giusta, perché contiene la parola-chiave a cui gira attorno la canzone – “l’invasor” – che traccia il confine netto tra bene e male, da qualche mese succede un’altra cosa, più indefinibile, incastrata com’è tra i gangli della comunicazione contemporanea.
C’è questo pezzo, “Another Love”, vecchio di una decina d’anni, scritto dal cantautore inglese Tom Odell, quando era un ragazzo. Odell è un altro esponente dell’ormai inesauribile categoria di songwriters lamentosi, il cui capostipite identifichiamo nel diabolico James Blunt e che poi ha prosperato, includendo campioni di vendite come Ed Sheeran.
E “Another Love” è per l’appunto la giaculatoria d’un amante sfigatissimo, che le tenta tutte per tenersi vicino una tipa che evidentemente non ne vuole sapere – e il relativo videoclip è la fedele rappresentazione del tutto, con lui che canta imperturbabile mentre lei gli tira i piatti in testa.
Pezzo non brutto, ma indigesto a chi non sia più in possesso del serbatoio di romanticismo anagrafico in cui intingere il suo ascolto.
Però poi succede qualcosa di misterioso, attraverso un inesorabile crescendo sospinto da esoterici ammiccamenti: “Another Love” diviene la soundtrack della protesta, di quella vera, seria e drammatica in diversi angoli del mondo alle prese con tragiche circostanze, per come viene raccontata, messa in scena, iconizzata e resa fattore emotivo nella bacheca collettiva dei social – TikTok e Instagram in testa.
In particolare viene isolata la strofa del brano in cui Odell canta “Se qualcuno ti fa del male, io voglio battermi / ma troppe volte le mie mani si sono rotte / se userò la voce sarò una bestia / le parole vincono ma io so che perderò”, tratta da una sua esecuzione live, in cui a cantarla più che Odell è un gran coro del pubblico, fatto di voci femminili.
È così che prolifera la concisa colonna sonora della descrizione di un dramma nel suo momento-limite – quello della descrizione, nelle sue interpretazioni più diverse: si comincia nell’Ucraina sotto l’attacco dell’invasor e “Another Love” diviene il pendant del distacco, della separazione, dello smarrimento.
Pochi mesi dopo, il pezzo affiora dall’Iran, dopo la morte di Masha Amini, la ragazza arrestata a Teheran dalla “buoncostume” e morta in carcere. Le ragazze di Teheran su TikTok si filmano mentre si tagliano ciocche di capelli e scendono in strada a protestare e sotto c’è la canzone di Odell, a salmodiare della ragazza che l’ha mollato e di ciò che avrebbe dovuto fare per evitarlo.
Quindi, mentre la canzone resuscitata passa agevolmente il traguardo del miliardo di ascolti su Spotify, succede una cosa ancora più strana: sul solito palcoscenico globale di TikTok lo stesso brano viene usato a tormentone per musicare video di tutt’altra natura, quelli di feste e matrimoni, di dichiarazioni d’amore e magnifici tramonti: tutto si confonde e si sbriciolano le frettolose tesi sulla nascita di un inno trasversale generato dal basso per unificare l’impegno sociale e le buone cause.
Si sovrappongono caoticamente il dovere e il piacere, il dolore e l’esibizionismo, con il medesimo effetto straniante – in quel caso residuale – di “Bella Ciao” trasformato in martellone techno e suonato per un comune ballo troglodita.
Mentre i manager di Odell si fregano le mani contando i biglietti per i suoi concerti e valutando le prospettive del suo nuovo singolo (“Best Day of My Life”) e mentre lo stesso Odell si sente in obbligo di esprimere pubblicamente solidarietà alle donne iraniane che l’hanno scelto a orecchio e non per meriti documentati, resta lo sbigottimento per il rovesciamento delle prospettive nel quale è il pubblico, protagonista nell’effimera democrazia social, a decidere tutto, secondo logiche imperscrutabili e amorali. Secondo le quali, ad esempio, il vecchio può tornare a essere nuovo e conta più l’intuizione subitanea che mille campagne promozionali.
È tutto un flusso veloce, nel quale non c’è più differenza o frontiera tra le cose serie che richiedono sofferenza, e quelle volubili nelle quali ci vorremmo tutti perdere. Alla fine la vita è una sola e adesso si è concordato di rappresentarla collettivamente nello stesso modo, in certe app del cellulare, ovunque si abiti, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Mentre la nostra esistenza scorre tra gioie e dolori, pene e desideri, la raccontiamo e, intanto, sullo sfondo, ancora soltanto per qualche settimana, risuona quella canzone che ci fa sentire meno soli e ci fa sentire parte di un gruppo. Un po’ come quei braccialetti che ti mettono al polso per entrare e uscire a tuo piacimento da una notte in discoteca. E che finisci per tenerti addosso anche il giorno dopo.