Quand’ero bambina mia madre seguiva uno sceneggiato (si chiamavano così, prima dell’era della serialità) intitolato “I sopravvissuti”. Non avevo il permesso di guardarlo perché alcune scene, come avvisavano e avvisano le didascalie o i bollini rossi oggi, non erano adatte a un pubblico non adulto. Ma qualcosa captavo comunque, e tra queste scene inadatte ce n’era sicuramente una in cui i protagonisti si aggiravano per la città svuotata da un disastro (atomico, presumevo: avrei molto più tardi scoperto, googlando, che si trattava di un’epidemia causata da un misterioso virus cinese – sic!).
In quelle vie lerce e buie sfrecciavano enormi topi affamati e chissà perché nel mio ricordo resta viva l’impressione che potessero essere stati viceversa mangiati, nella presumibile carestia che si associava al disastro. Ora, probabilmente avevo già superato l’età del topo di città e del topo di campagna, ovvero del roditore come presenza fiabesca benevola e didascalica, ma il topo come rara apparizione animata di uno scenario virante verso il post umano era quanto di più orrorifico e angoscioso.
Ne conservai memoria a lungo, di quella sequenza solo intravista, e tutt’ora deve agire in me come altamente fobica se quando ho letto il titolo dell’ultimo libro di poesia di Alberto Bertoni, L’isola dei topi (Einaudi), l’ho trovato sulle prime respingente e poi ho sperato che non si trattasse dei roditori come in effetti specie, ma piuttosto di un’allegoria o metafora.
E no, invece: nelle poesie di questo libro delle metafore o delle allegorie, se mai, sono incaricati gli uomini (e l’io lirico in particolare), mentre i topi come bestie (alla Tozzi, ma meno perturbanti: piuttosto, schifosi e ben vividi) si prendono la scena perlomeno come pari grado o aventi diritto a metà, fino alla previsione effettivamente apocalittica di “Canalchiaro”, la prosa finale.
Ma con ordine: chi sono i topi di Bertoni, allora, e che cos’è l’isola? Leggo in diverse note critiche sul libro che quest’ultima coinciderebbe con l’infanzia, per Bertoni legata a un’idea dell’animale addomesticato, da vita rurale.
Non credo sia forzato leggerla invece come l’approdo di un io lirico (lo è molto, lirico, quest’io: per postura e intelligenza ritmica) che comincia a fare i conti con l’ultima stagione della vita, la vecchiaia, senza nessuna autoindulgenza commiserativa («le facce come/cortecce di rughe»; «le pause/ sul più bello di un discorso/e il male improvviso alle ossa,/con la voglia di sonno/alle nove o poco dopo»), e con qualche affettivo cedimento per la specie, soprattutto nel segno della continuità familiare (fino a quel «nonno mai incontrato» che rima con «soffocato», in una delle ipotesi di morte banale, incidentale, domestica –per «nocciolo di pesca»).
L’orizzonte, come si vede, è comunque ibrido, metamorfosato e, dintorno, oggetti «defunti», luce «grigia», parole «dimenticate», immagini ricorrenti di tramonto, declino, fine vita (la gatta che muore in almeno due poesie). Il tutto filtrato da uno sguardo naturalmente e (talvolta) sornionamente incline alla medietà oraziana: né angustia per piccoli rivolgimenti o grandi catastrofi, né impennate umorali per gli alti che seguono ai bassi.
Lo dice citando Fernando Bandini, Bertoni, come ci vede, noi umani: «a metà suddivisi/tra sonnolenza ed estinzione». Il tema dell’estinguersi per vie naturali, attese, eppure generalmente impreviste o imprevedibili, è il basso continuo del libro, non a caso ripreso nella già citata (e bellissima) prosa finale, scritta durante l’isolamento pandemico, in una di quelle passeggiate nel silenzio quasi inviolato delle città in cui tutti abbiamo fatto esperienza dell’essere “sopravvissuti”, o così ci pareva.
Bertoni costeggia i canali interrati di Modena, una «Venezia in minore», e immagina una carica di topi esumati dai lavori in corso, ovvero, come nel fumetto di Spiegelman, la «topizzazione del mondo». Utopia è però l’ultima, salvifica (o al contrario, funesta) parola del libro (poiché pronunciata in chiave negativa, in assenza). Non per questo, le presenze teriomorfe (non solo topi, animali e altri vari insetti, più o meno consueti) smettono di integrarsi nel quadro dell’umano che le capta, e anzi: sono animali guida, alla lettera, di una perlustrazione e di uno scavo (giusta l’immagine della prosa finale) attraverso grotte, cunicoli, tane, i luoghi dell’inconscio, facendo un po’ di analisi con l’accetta.
Non sarà fino in fondo desiderabile, ma la prospettiva di questo libro è proprio quella da sotto in su, come dal marciapiede-terra promessa del “Mendicante di San Francesco”, «nel moto avanti e indietro della gente»: una delle poesie più riuscite, sul piano dello sguardo oggettivante.
Nella gente si ricomprende e (forse) ricompatta questo io che si esamina sempre per metonimie («il maglione blu senza essere Marchionne») e si ritrae costantemente in viaggio o in cammino verso luoghi «familiari e indifferenti, meravigliosi e tristi», riprendendo “Piazza d’Armi”, poesia che ci dà un’ulteriore indicazione su come, letteralmente, muoversi nell’attraversamento dei giorni: «c’è qualcosa da aggiustare nel mio passo».
Ancora una volta, cioè, qualcosa di sbilenco, di storto, di guasto, di corroso, di arrugginito, di polveroso, si frappone al godimento, oppure (sorge il dubbio, legittimo) è lo sguardo calante a impolverare non solo il vissuto ma il presente, che si va via via slabbrando e scolorendo, rispetto alle attese, leopardianamente presenti e vive, delle età trascorse?
Senza nemmeno più la necessità di fatti o gesti eclatanti (anche se il titolo dell’ultima sezione, “Was war”, rimanda espressamente a Celan), sta proprio a “Questi giorni“, cioè quelli soliti, non evenemenziali, offrire le trame ormai senza spoiler e nessuna katastroféfinale: «Le giornate ti avvistano negli angoli/più innocui/e ti presentano conti esagerati,/sintonie mancanti», dove la virgola marca piuttosto un’endiadi che un principio di elencazione.
Sono le sintonie mancanti, i conti esagerati, per questo io coerentemente oraziano, fino all’ultimo. Ovvero alla ricomparsa insistita dei topi, in implacabili sequenze consecutive nella parte conclusiva del libro: topi in agguato per le strade, topi-sorpresa al ristorante, topi in compagnia, a frotte o solitari, topi ballerini, calciatori o intellettuali, sin a “rattizzarsi” lui stesso, l’io lirico col nome di un santo: «Alberto modenese odierno/ […] laico, disancorato, vuoto/e oggi vero topo/lanciato in uno slalom,/sul bordo».
E come derattizzarci pure noi, a questo punto.