La retorica nazionalista sta dominando la campagna elettorale bosniaca, e non è una buona notizia. Il 2 ottobre i cittadini si recheranno alle urne per eleggere i membri serbi, bosniaci e croati della Presidenza e i deputati delle assemblee nazionali, regionali e cantonali ma molti dubitano che il voto farà emergere leader in favore delle riforme economiche oppure che sblocchino il processo di adesione all’Unione Europea.
I croati, come riportato da Reuters, minacciano «una riorganizzazione territoriale», l’entità autonoma serba ignora e sabota i lavori del governo centrale mentre i bosniaci promettono di difendere l’integrità territoriale dello Stato ad ogni costo. Il leader separatista serbo bosniaco Milorad Dodik, membro della presidenza tripartita, ha dichiarato esplicitamente di voler portare la metà serba della Bosnia tra le braccia di Belgrado e quest’obiettivo ha già provocato, in passato, lo scoppio di una guerra costata 100mila morti e la distruzione di milioni di abitazioni.
«Non possiamo rimanere con la Bosnia-Erzegovina» ha affermato Dodik, durante un comizio pre elettorale «perché sopprime continuamente le nostre potenzialità e il nostro sviluppo». Dodik è anche uno dei pochi uomini politici europei ad aver incontrato frequentemente, nel corso degli ultimi mesi, il presidente russo Vladimir Putin per esprimere la propria approvazione nei confronti dell’invasione dell’Ucraina.
L’ordine politico costituzionale della Bosnia-Erzegovina è una sintesi tra un modello di Stato unitario ed una forte decentralizzazione amministrativa. Il decentramento è stato accettato dalla comunità internazionale per facilitare la convivenza tra i gruppi etnici protagonisti della guerra civile: bosniaci, croati e serbi.
Lo Stato si compone di due entità: la Federazione di Bosnia-Erzegovina e la Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina. La Federazione si articola su tre livelli amministrativi, che comprendono cantoni e municipalità mentre la Repubblica Serba ha un governo centrale, formato da presidenza, assemblea bicamerale e Consiglio dei ministri e le municipalità. Nella Federazione gli equilibri politici giocano a favore di bosniaci e croati, nella Repubblica, invece, dei serbi.
Nel 2018 le elezioni parlamentari avevano prodotto un risultato frammentato ma favorevole ai nazionalisti. Il Partito dell’Azione Democratica, nazionalista bosniaco e conservatore guidato da Bakir Izetbegovic, era emerso come partito di maggioranza relativa nella Camera dei Rappresentanti con 9 seggi ottenuti sui 42 a disposizione ed il 17 per cento dei voti.
L’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti, movimento nazionalista serbo guidato da Milorad Dodik, era giunto secondo con 6 seggi ed il 16 per cento dei voti. Al terzo e quarto posto si erano piazzati, rispettivamente, un’alleanza di partiti ultra nazionalisti e conservatori serbi (con quasi il 10 per cento dei voti) ed il Partito Socialdemocratico, progressista ed europeista. Subito dietro era giunta una coalizione di nazionalisti croati con il 9 per cento dei voti e 5 seggi e molti altri, piccoli, partiti.
Il clima politico e il sistema di governance della Bosnia-Erzegovina sono polarizzati e intrisi di retorica nazionalista, fattori che rafforzano la percezione di una suddivisione su base etnica. Il continuo degrado della democrazia fa sì che il governo statale sia nelle grinfie dei partiti politici e dei loro leader, che bloccano continuamente le istituzioni esecutive. La nomina del Consiglio dei ministri, dopo le ultime elezioni nazionali del 2018, ha richiesto ben 14 mesi e ciò ha bloccato i processi decisionali nel Paese.
Un esempio è stato il rinvio, dall’ottobre al novembre 2020, delle elezioni locali a causa dei ritardi di bilancio causati dai disaccordi sulle nomine ai vertici delle istituzioni. Lo Stato è disfunzionale, non si occupa dei cittadini e ciò provoca una forte emigrazione, in particolare di lavoratori qualificati e giovani che non sopportano più le condizioni di vita.
Secondo gli analisti gli eventi che stanno avendo luogo in Ucraina avranno una profonda influenza sul futuro della Bosnia-Erzegovina. C’è il rischio che la Russia, in caso di fallimento a Kyjiv, cerchi di compensare la situazione esportando il conflitto nei Balcani occidentali. Alcune circostanze suggeriscono che ci sia motivo di preoccuparsi per una possibile instabilità e per una messa in discussione del risultato delle elezioni da parte della Russia.
La Bosnia-Erzegovina è particolarmente vulnerabile nei confronti dei cyber attacchi, perché non ha identificato le infrastrutture critiche da proteggere quando questi avvengono.
La Russia ha diversi obiettivi strategici nella regione. Vuole evitare che le nazioni dei Balcani Occidentali come Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia aderiscano all’Unione Europea. Vuole inibire le attività della Nato e impedire agli Stati balcanici che ancora non l’hanno fatto di aderirvi.
Il modo per riuscirci è quello di danneggiare le riforme interne, prerequisito per l’integrazione nelle strutture euro-atlantiche e fomentare il sentimento popolare anti-occidentale. Il supporto e l’addestramento forniti da Mosca hanno trasformato le forze di sicurezza della Repubblica Srpska in un simil esercito, in contraddizione con l’accordo di pace di Dayton. Non è escluso che il Cremlino opponga un rifiuto al rinnovo del mandato Onu per la missione di peacekeeping dell’Unione europea che scade il 2 novembre.