Oltre le polemichePerché quello del Qatar sarà il mondiale del cambiamento

I grandi eventi sportivi sono da sempre un’occasione di crescita per il paese ospitante, nonché uno dei rari momenti di confronto e di diplomazia attiva. La storia si fa anche sui campi da calcio e il torneo di quest’anno non deluderà le aspettative

LaPresse

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 53 di We – World Energy, il magazine di Eni

Non è la prima volta che la carovana del calcio lascia i lidi precostituiti d’Europa e del Sudamerica per fare incursioni “mondiali” in mondi nuovi. Anzi, diremmo che è una storia che si ripete dall’inizio, visto che gli inglesi ogni volta che una manifestazione si tiene da loro (o si conclude da loro, come l’ultima Coppa dei Campioni CONMEBOL-UEFA 2022, nota anche come Finalissima 2022, vinta dall’Argentina a Wembley) parlano sempre di calcio che “ritorna a casa”, come se ne fossero a priori i fondatori, brevettatori e, in ultima istanza, i reggitori delle sorti finali.

A dispetto dei risultati, almeno a livello di Mondiali vinti, visto che l’unico per loro rimane quello svoltosi in casa nel 1966 contro una forte Germania Ovest, che iniziava un ciclo peraltro, e visse quella finale come vittima sacrificale, a vent’anni o poco più dagli sfracelli del Terzo Reich sulla città di Londra. Ci voleva, almeno una vendetta sportiva.

Però stavolta si va davvero lontano. In Qatar. E per di più, a causa dei problemi meteorologici, del caldo e della conformazione del Paese, si cambia davvero molto anche nell’organizzazione: le gare in cinque posti non distanti l’uno dall’altro più di 60 chilometri; il calendario che, invece del tradizionale giugno-luglio (che corrispondeva anche al tempo di ferie dei lavoratori specie nordeuropei), va dal 21 novembre al 18 dicembre e infine gli orari che, come ormai avviene dall’era televisiva del Mundial, ovvero più o meno da Mexico ’70, andranno incontro in primo luogo alle televisioni che pagheranno i diritti di trasmissione nel mondo e poi naturalmente (ma non c’è proprio da giurarci) ai problemi atletici che potrebbero insorgere per una condizione climatica che metterà a dura prova squadre e medici accompagnatori, col caldo e l’escursione termica.

Un mondiale in salsa araba
Che il Mondiale di calcio in salsa araba fosse la prossima tappa della carovana del gol era ormai nell’aria da tempo, considerando che i diritti tv, per l’appunto, erano passati già nel tempo da un costo – che sembrava allora fantascientifico – da 112 milioni di dollari per Francia ’98 agli oltre 2 miliardi e mezzo circa di Brasile 2014 (in Russia le cifre sono rimaste riservate ma c’è chi giura si sia superato i 3 miliardi) e il costo organizzativo, in proporzione, era salito alle stelle, peraltro come quello di un Gran Premio di Formula Uno o di Moto Gp che i Paesi arabi ospitano già da qualche anno. E secondo solo a quello delle Olimpiadi, per le quali si aggiunge la necessità di trovare una formula più complessa e environmental-friendly di riutilizzo delle strutture per il circa centinaio di specialità sportive in ballo.

Col calcio è più facile. Per modo di dire, se il Mondiale si disputa, come sarà in Qatar, in un Paese che non ha una grande tradizione di campionato e squadre locali. E tra le polemiche dei giorni dell’assegnazione c’è stata certamente quella relativa alla costruzione a norme FIFA dei cinque stadi dove si disputeranno le gare di girone e poi gli scontri diretti che porteranno alla squadra regina del Mondiale 2022.

Con annessi e connessi. Pensiamo che il Qatar ha dovuto persino cambiare la legislazione sociale e del lavoro, per evitare di continuare ad utilizzare la manodopera, per lo più straniera -oltre due milioni soprattutto asiatici e africani, di cui almeno la metà nel settore delle costruzioni – in condizioni di diritto del lavoro più legate al passato arabo dell’ottocento che a moderne società del XXI secolo. Ma l’ha fatto.

E certamente questa sarà un’altra delle frecce all’arco di chi insiste nel dire che le competizioni sportive costringono alla fine a migliorare i Paesi in cui si svolgono. Di sicuro, in parallelo ai progressi nel settore del diritto del lavoro, il Qatar ha fatto anche un passo avanti in campo istituzionale e politico, eleggendo per la prima volta con elezioni dirette 30 dei 45 membri del Consiglio della Shura che – nelle condizioni date – comincia ad assomigliare ad un Parlamento, forse con troppi poteri consultivi più che legislativi o di controllo esecutivo, ma rappresenta certo un avanzamento che, non si può negare, sia legato alla dimensione planetaria di attenzione in vista del prossimo Mondiale di calcio.

È chiaro che non stiamo parlando di un sistema in cui agiscono partiti politici all’europea, e le candidature iniziali per i circa 30 posti sono state oltre 200 in forma del tutto individuale, ma si tratta di un processo iniziato e che potrebbe non interrompersi se gli effetti si vedranno anche oltre la data di svolgimento delle competizioni sportive.

Quanto questo processo sarà seguito da una crescita anche di cittadinanza attiva lo scopriremo negli anni a venire. D’altronde, che lo sport sia ormai divenuto uno dei rari momenti di confronto e di incontro a livello diplomatico e di diplomazia attiva, quella che ormai molti definiscono soft power, dei Paesi, non lo scopriamo da oggi.

Il ruolo politico degli eventi sportivi
Le Olimpiadi stabilivano un momento di pace tra le guerre interne anche in Grecia e, solo per stare alle Olimpiadi moderne ed allo svolgimento dei Mondiali di calcio iniziati con Uruguay 1930, non possiamo certamente dimenticare che la tensione tra la spinta al miglioramento di un paese ospitante scelto e il confronto sulle condizioni di svolgimento e di vita nel Paese stesso sono state spesso alla base di dibattiti anche internazionali sulla opportunità o meno di disputare le competizioni.

Con relativi strali politici e boicottaggi non certo indolori (basta guardarsi la bella serie sulla squadra italiana di tennis dell’era Panatta “Una Squadra”, per rendersene conto plasticamente). A volte anche con comportamenti contraddittori a poca distanza di tempo.

Si pensi alle proteste nel 1968 per le Olimpiadi al Messico, e al clima diverso in cui si giocò il mondiale, sempre in Messico, nel 1970. Non si può certo dire che in quei due anni un Paese così grande e differenziato socialmente si fosse improvvisamente ritrovato sulla strada del miglioramento all’unisono.

Oppure l’Argentina del Mundial del 1978, in piena dittatura militare, di cui in molti hanno raccontato anche con riferimento esplicito alle singole partite e il loro significato per i prigionieri politici, come per esempio Marco Bechis col suo film “Garage Olimpo” e la “Solitudine del sovversivo”.

I Mundial, come le Olimpiadi, hanno accompagnato i cambiamenti epocali e, se l’unica vittoria inglese fu anche ricordata dagli altri con simpatia per gli anni della “swinging London”, lo stesso valse per il Mondiale italiano del 1990.

Nonostante la fine di Yalta, lo sgretolamento dell’Est Europa e la riunificazione tedesca alle porte (ma ancora giocavano divisi e la Germania dell’Est disputò l’ultimo incontro vincente a settembre del 1990 con il Belgio, una qualificazione europea che divenne …amichevole) il Mondiale italiano fu quello dell’armonia e delle notti magiche per tutti, mentre il mondo traballava di qua e di là del Muro, ormai al termine della sua funzione.

E ci volle però un decennio ancora per far giungere il Mondiale di calcio lontano dai suoi soliti posti sicuri e consolidati: nel 2010 approdò finalmente in Africa, continente che aveva cominciato ad assicurare profitti calcistici attraverso i suoi mille talenti, innanzitutto naturalizzati dalla Francia, Campione per la prima volta nel 1998 in casa con una formazione che di tradizionalmente francese aveva ben poco, visto che oltre la metà dei convocati erano di provenienza dai Dipartimenti d’oltremare.

In Africa si andò sul sicuro: era un Sudafrica pacificato dalla presenza luminosa di Nelson Mandela, in grande spolvero anche economico, e insieme agli altri Paesi faceva parte del costituendo gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e, appunto Sudafrica), tanto da restare filo sottile di collegamento per i successivi Mondiali del 2014 in Brasile e quelli del 2018 in Russia.

Un’opportunità di cambiamento
Oggi i Mondiali in Qatar danno inizio – più solidamente di un semplice Gran Premio per un fine settimana, e forse anche dell’Expo del vicino EAU (Emirati Arabi Uniti) a Dubai – ad un cammino di diplomazia sportiva che sta portando cambiamenti importanti non solo nell’ambito delle norme legislative sul lavoro e di quelle elettorali, ma anche nel welfare in stile islamico, così legato, intimamente all’idea etica di “Zakàt” ovvero di carità: questa non va più interpretata solo come precetto religioso ma come invito alla giustizia e non solo all’assistenza, un metodo tradizionalmente perpetuato negli anni dalle dinastie regnanti e dalle tribù unificatesi in regni e Nazioni.

Anche i Paesi arabi e la sua religione sentono uno spirito di cambiamento e non necessariamente di sola imitazione del modello occidentale. I temi della giustizia sociale non sono ancora così dibattuti pubblicamente e dubitiamo possano esserlo solo perché si intrecciano con un dribbling o un tackle. Ma l’effervescenza di un avvenimento di portata mondiale, le piccole e grandi trasgressioni alla normale quotidianità nei Paesi che ospitano così tanti sportivi, accompagnatori, tifosi, giornalisti, hanno spesso creato un fenomeno di lunga portata.

Certamente più lunga di quanto potessero immaginare anche solo dieci anni prima o più, quando si è combattuto per l’assegnazione. E, cogliendo anche questo Mondiale come una opportunità, certamente già il Qatar del 2022 non è certamente più quello che vinse il contest per ospitare il mondiale di calcio nel 2010.

Non saremo spettatori di una cavalcata Azzurra come quella che abbiamo visto agli Europei, ma non mancheranno di certo i motivi non solo sportivi ma anche sociali per guardare ai Mondiali di calcio del Qatar con un certo interesse: soft power e diplomazia non si mostrano solo ogni quattro anni.

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