«Non cerco l’opera. È l’opera che viene a me». Parola dell’enfant prodige dell’arte contemporanea Daiga Grantina. Dopo il Palais de Tokyo (Parigi) del 2018 e la Biennale di Venezia (Padiglione Lettonia) del 2019, è ora protagonista della Fiera Frieze di Londra (dal 12 al 16 ottobre alla galleria Emalin). Abbiamo trascorso due giorni insieme all’artista in occasione della sua recente residenza d’artista presso Cascina I.D.E.A. sul lago Maggiore.
Avere la possibilità di riflettere insieme all’artista lettone, residente a Parigi, è un’occasione per approfondire un tema cruciale per l’arte contemporanea: da cosa nasce un’opera d’arte? Viene prima l’opera o la sua ideazione-progettazione-spiegazione? Da Pollock in poi, l’arte contemporanea sembra essere sempre più ricca di artisti per cui il gesto – più o meno viscerale e istintivo – prevale o addirittura anticipa la ragione. Certamente spesso capita che una qualche forma di armonia compositiva, anche inconsapevole, finisca per guidare e mediare l’impulsività e la potenza del gesto creativo.
In ogni caso “il cosa voglia dire” l’artista, ossia la spiegazione allo stesso gesto artistico, spesso arriva dopo che l’opera è stata compiuta. Cosa significa è così spesso frutto di avventurose letture “postume”, per lo più di matrice critico-curatoriale. La verità è che l’artista non ha bisogno di tale razionalizzazione. L’artista contemporaneo ha spesso bisogno di fare; il suo agire risponde a proprie regole e necessità, non sempre razionalmente e facilmente codificabili. Arte come terapia? Non solo, l’introspezione è anche determinata dal mercato dell’arte che raramente commissiona all’artista la rappresentazione di un soggetto. La conseguenza è che il creativo è portato a concentrarsi sull’Io e sulla propria percezione della realtà. È forse in fondo questo il segreto del fascino dell’arte contemporanea: l’artista ha la grande e unica possibilità di dare forma ai propri pensieri attraverso immagini e visioni che vanno al di là – o anticipano – la parola. Il gesto è così sempre più “contenuto” e “oggetto” stesso della ricerca artistica contemporanea.
Questa riflessione risulta calzante per le opere di Daiga Grantina il cui lavoro si disvela in tutta la sua potenza allorché siano palesate alcune informazioni e chiavi di lettura. L’artista, innanzitutto, definisce il suo lavoro “pratica” e non ricerca artistica. In questo “fare”, che è il faro e motore di ogni cosa, ritornano in modo costante la fluidità delle forme, le sfumature dei colori, la tridimensionalità e l’agglomerazione di materiali eterogenei. Ci dice che non sa spiegare e che non le interessa nemmeno il perché faccia un’opera; è una questione che afferisce alla capacità di ascoltare se stessa e ciò che la circonda.
L’artista non cerca di comporre un’opera, ma è la forma che si concretizza al tempo stesso nelle sue mani e nella sua testa. Da qui la frase che ripete come un mantra: «Non cerco l’opera. È l’opera che viene a me». Le sue opere sono così frutto di un gesto artistico attraverso cui si cristallizza l’inconscio e l’energia della realtà in cui siamo immersi. L’artista è come una spugna che assorbe tutto e restituisce ciò che ha introitato e miscelato all’interno: dagli elementi della natura, allo spazio in cui lavora, alla sua famiglia, tutto è arte per Daiga Grantina. L’opera o meglio il manufatto finale, che ci troviamo di fronte, è “solamente” la manifestazione sintetica dell’esistere, colto nella sua infinita articolazione e complessità.
L’arte racconta, o meglio restituisce in immagini, la realtà intesa e percepita dall’artista: nulla è assoluto. Tutto fluttua e l’opera sembra – quasi – non avere né limiti né confini netti: il colore è espresso nelle sue infinite sfumature, il materiale non è mai unico e c’è sempre un “tutto” che deriva da un processo di stratificazione e assemblaggio. La ricchezza del nostro vivere non può che prendere forma a partire dai dettagli che l’artista concatena come a ricreare delle fantasmagoriche mappe concettuali di forme e contenuto sospese nell’aria. Non sorprende quindi che l’artista prediliga appendere o rialzare da terra le opere, perché non sono specchio della realtà come la vediamo, ma ne colgono l’essenza.
Prevale quindi anche la forma circolare o spirale, ovvero una certa sinuosità organica in cui non si riesce mai a comprendere da dove sia partita l’artista nel realizzare l’opera. Nel lavoro di Daiga, come in natura, non c’è un inizio e una fine, ma solo un qualcosa che si evolve e si trasforma. Queste opere quasi ondivaghe colpiscono un sentire comune, riuscendo spesso a travalicare la soggettività artistica per solleticare temi e sensazioni archetipali. Il lavoro di Daiga Grantina è così sempre sospeso nel dialogo tra gli estremi, per il cui il risultato è una via di mezzo in cui non sono fusi ma coesistono tutti gli elementi: non esistono estremi, come non esiste una visione antitetica tra l’Io e l’altro da me, esiste una complessità che è ricchezza.
Come ha colto Elsa Barbieri, curatrice che ha accompagnato l’artista nella sua recente residenza italiana, «la pratica di Daiga Grantina si inscrive nel passaggio di mezzo, intuitivo, tra visione e cristallizzazione della forma. Prendere coscienza di simile “middle path” è come un percorso in cui lo spirito diventa coscienza ed è portato a riflettere su se stesso e a percepire sia gli oggetti che lo circondano, sia gli altri spiriti che vivono intorno a lui. Ad esempio, nell’ultima mostra “Ai-gerridi-d’acqua” l’ispirazione è fornita dal vicino Lago d’Orta. Come nel lago non un pesce può saltare, non un insetto può cadere, senza che il fatto non venga così riferito da cerchi e increspamenti, così la vibrazione interiore e interiorizzata del colore, centro focale della ricerca artistica di Daiga Grantina, mina l’uniformità cui la nostra mente tende a rispondere per riconoscere una forma o un colore, riorganizzando la gerarchia della percezione e liberando il nostro punto di osservazione».
Ognuno di noi resta se stesso di fronte alle opere di Grantina: non si perde né si fonde in esse, ma è stimolato, invitato a interagire e girarci intorno, come accade di fronte ai lavori del grande maestro Arp, che concepiva l’arte affinché lo sguardo dello spettatore scivolasse per tutto il perimetro dell’opera. Non bisogna però guardare alla singolo prodotto di Daiga, quanto considerare la sua ricerca artistica come un’unica grande opera in trasformazione.
L’artista e l’arte coincidono: non c’è né un inizio né una fine, bensì un divenire di forme della “ragione”: le singole mostre, opere o installazioni non sono altro che singoli frame e dettagli di questo film inarrestabile e irripetibile. Non sorprende quindi che l’artista anni fa sia partita proprio dai “film” – opere perlopiù sconosciute – quale punto da cui partire per riflettere sulla realtà. Questo divenire negli anni si è trasformato in una ricerca artistica fortemente materica, solo apparente caotica, ricca invece di sottili e infinite geometrie, che finiscono per dare forma a un’arte ontologicamente estremamente mimetica. Daiga va oltre Arp, portando nell’opera d’arte non solo la tridimensionalità della realtà, quanto le dimensioni che razionalmente l’uomo non percepisce (la quarta e quinta dimensione) e quell’inconscio collettivo da cui l’artista sembra essere così attratta.
Nella sua arte si percepisce così l’energia del mondo, di cui siamo parte e motore attivo. Capiamo perciò perché Daiga Grantina non progetti mai i suoi lavori, ma rimanga in vigile attesa di se stessa e del mondo, che in fondo coincidono. Sospendiamo il giudizio razionale e abbracciamo queste opere considerandole per quello che sono: pure visioni, zoom sull’essenza della realtà, lucidi e fulminei flash che ci restituiscono e ci aiutano a “vedere” chi siamo.