Chi ha figli è invitato a non leggere questo articolo. Se decidete comunque di leggerlo, non ne sarete contenti, e mi scriverete che, siccome non ho figli, non posso capire. Senza che lo leggiate, vi anticipo subito che avete doppia ragione d’innervosirvi: questo articolo teorizza che solo chi non ha figli possa capire.
È domenica sera. In una delle poche case in cui i figli non stabiliscano il palinsesto, e in cui non si guardi quindi qualche porcheria per adolescenti, il televisore è acceso su Calenda intervistato da Fabio Fazio. L’ultima domanda è se sia concepibile un’unità delle opposizioni sul tema della pace.
Poco dopo, una madre twitta tutta fiera di puccettone di mamma sua. Il tweet fa così: «Mio figlio ascolta Carlo Calenda a Che tempo che fa che dice: i dittatori bisogna fermarli. Si parla di Putin, di Russia. Lorenzo, alla fine, commenta: si è dimenticato di ricordare cosa ha fatto Hitler, bisogna ricordarlo. Lo ha nove anni. Fa la primaria. Stiamo crescendo buoni cittadini».
Quello della Germania e della seconda guerra mondiale è l’unico esempio che Calenda abbia fatto, come sa qualunque adulto abbia guardato la trasmissione. Lorenzo non lo sa perché Calenda non ha detto la parola «Hitler», e Lorenzo non ha la più pallida idea, avendo nove anni, di cosa significhino le parole «sudeti» «Cecoslovacchia» «seconda guerra mondiale». Lorenzo ha nove anni, e tutto quel che sa è uno slogan da maglietta: Hitler cattivo.
Il dramma (uno dei drammi) è che una volta avremmo pensato che un Lorenzo quarantenne avrebbe saputo argomentare in maniera più sofisticata, e oggi sappiamo che c’è un pieno d’adulti che molto più in là dei concetti (incredibilmente contrapposti) «dittatura brutta» e «guerra brutta» non vanno. Il dramma (un altro dei drammi) è che la madre che twitta non è sola, nella feticizzazione del puccettone di mamma sua.
In questo periodo ne incontro uno al giorno. Gente con cui parlo abitualmente, gente che ha il mio numero di telefono, e vi prego di credere che già questo costituisce una notevole selezione all’ingresso. Gente normodatata, e anche qualcosina in più, che mi dice che bisogna fare i plurali con l’asterisco perché la figlia ci tiene. E tu dici: ma tua figlia ha sedici anni, non capisce niente di niente per statuto, per neurologia, per natura. E loro ti rispondono: ma il futuro è suo. Sì, cocco bello, ma è suo quando di anni ne avrà quaranta, e guarderà alla sé stessa di oggi sghignazzando, e domanderà a te novantenne che intanto stai toccando il culo alla badante: «Papà, ma tu perché non mi dicevi che gli asterischi erano una stronzata?».
Ormai dovrei esserci abituata, eppure la dittatura dei ragazzini mi sconvolge ogni volta. Perché mi aspetto, dai miei coetanei, che abbiano dell’avere dieci o quindici o vent’anni ricordi vivi quanto lo sono quelli che ho io: io me lo ricordo, quanto ero scema. E sono sollevata che, da me, nessuno s’aspettasse altro che la scemenza propria della mia età. Nessuno che non fossero i miei genitori, che allora erano un’eccezione e oggi sarebbero la norma: gente convinta d’aver generato un genio. Tuttavia neppure loro erano così fessi da adeguare al mio intelligentissimo volere di scemissima adolescente le loro scelte o il loro linguaggio.
(Certo che avrei potuto essere così scema da lanciare la passata di pomodoro contro un quadro valutato miliardi, e per fortuna a quel punto qualcuno m’avrebbe preso a coppini, invece di scrivere tweet pensosi sul fatto che bisogna ascoltare le istanze dei giovani. È perché i nostri genitori erano meno scemi di quanto siamo, come genitori, noi? O sono questi perpetui palcoscenici che hanno reso evidente ogni rincoglionimento, anche quello una volta nascosto della convinzione che il puccettone di mamma sua sia un faro culturale?).
Stavo leggendo Piante che cambiano la mente, il libro di Michael Pollan, tradotto in italiano da Adelphi. Nel capitolo sulla caffeina, spiega la sua difficoltà nello smettere di bere caffè per sperimentare l’astinenza e capire come descriverla. E a un certo punto la traduttrice fa dire, a uno che scrive in una lingua senza genere e per cui quindi basta e avanza la parola «writer», «ancora prima che lo scrittore (o la scrittrice) possa sperare». E io a quel punto sono più interessata al carteggio che ci sarà dietro a quella stortura.
Buongiorno, signor Pollan, scusi se la disturbiamo, ma in Italia c’è questa nuova sensibilità, cioè in realtà non c’è nessuna nuova sensibilità, è una cosa che sta a cuore a chi ha tra i dodici e i ventidue anni, gente cui non s’è ancora finito di sviluppare il cervello e che certo non spende venti euro per leggerla, però siccome un po’ degli adulti che vanno dietro alla scemenza giovanile sono quelli che recensiscono i libri, e mica possiamo passare per retrogradi ai loro illuminati occhi, ecco, le dispiace se aggiungiamo il femminile di writer a quella frase, una parentesi di passaggio, quasi un ripensamento?
Ma certo, avrà detto Pollan, che essendo americano non ha la più pallida idea di cosa sia una lingua romanza ed essendo americano ci tiene tantissimo a essere inclusivo, includete tutti, allargate, no al maschile sovraesteso no alla guerra no al petrolio no a dover pagare il biglietto per vedere Van Gogh.
Solo che, come Pollan non sa essendo anglofono, le lingue coi generi non hanno mica solo il problema dei mestieri. E quindi nella stessa frase lo scrittore che però forse era scrittrice «deve ritrovare la fiducia in se stesso», e allora perché non «se stesso (o se stessa)», e alla frase successiva dev’essere «il solo a possedere» non so cosa, e allora non perché «il solo (o la sola)», a quel punto dovresti riempire di parentesi tutto il testo, ed è ovvio che non lo fai, mica è un articolo di Soncini che è pieno di parentesi e incisi e ostacoli tesi a scoraggiare il lettore (o la lettrice), è un libro che vorresti anche vendere, e quindi il tuo tentativo di assecondare la sedicennitudine della società resta un’incompiutezza, che d’altra parte è caratteristica ontologica dei sedicenni e quindi va bene così.
Poi alla mamma di Lorenzo glielo scrivono, che Calenda veramente ha parlato dei sudeti. Lei dice forse abbiamo acceso tardi, e loro crudelmente insistono, è stata l’ultima cosa che ha detto. A un certo punto risponde «Lo ha 9 anni, non ha studiato quella parte di storia. Ma sentiva di dover aggiungere Hitler al ragionamento sui dittatori. Questo mi ha colpito». È fiera di puccettone di mamma sua che ha «Hitler» come riempimento automatico alla casella «dittatori».
Quando avevo l’età di Lorenzo, andava moltissimo un romanzo per bambini intitolato Quando Hitler rubò il coniglio rosa. Per fortuna non c’erano i social e nessuno si filava i bambini, per fortuna mia madre quant’era intelligente la puccettona di mamma sua lo diceva al massimo alle cognate, per fortuna oggi nessuno può venire a rinfacciarmi tweet che dimostrassero che, per quel che ne sapevo, la più imperdonabile colpa di Hitler era stata costringere una bambina berlinese a separarsi dal suo peluche.