Oltre alle difficili trattative sul price cap europeo e alle tensioni con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, da qualche settimana il presidente francese Emmanuel Macron deve fare i conti con un’opposizione interna sempre più agguerrita, sia in parlamento che in strada. L’autunno caldo auspicato dai sindacati e dalla coalizione di sinistra guidata da Jean-Luc Mélenchon non sembra mettere in crisi il presidente, che potrebbe aver imparato la lezione appresa nel 2018 per disinnescare i gilets jaunes.
A meno di una settimana dal voto sulla prima parte della proposta, la discussione sul disegno di legge finanziaria (Plf) per il 2023 procedeva a rilento, con ancora più di duemila emendamenti da esaminare. Potendo contare solo su una maggioranza relativa all’Assemblée Nationale (245 seggi su 289), mercoledì la prima ministra Élisabeth Borne ha annunciato il ricorso al 49.3, un articolo della Costituzione che permette al governo di far adottare il testo in esame senza una votazione da parte del Parlamento.
La coalizione di Mélenchon (Nupes, alla quale partecipano anche socialisti, ecologisti e comunisti, oltre alla France Insoumise) ha subito proposto una mozione di censura, seguita dal Rassemblement national di Marine Le Pen: se una di queste mozioni raggiungesse la maggioranza, il governo di Borne cadrebbe. Tuttavia, entrambi i gruppi hanno dichiarato di non essere disposti a sostenere la mozione degli avversari, facendo scivolare entrambe le proposte nel nulla: uno scenario che è destinato a ripetersi anche da giovedì in poi con la discussione sulla seconda parte delle legge finanziaria 2023, quella legata alla sicurezza sociale.
La «crisi istituzionale» era all’orizzonte da giorni, come ha ricordato lo stesso Mélenchon domenica scorsa durante la manifestazione organizzata da Nupes per opporsi all’aumento del costo della vita e all’inazione climatica. «Sta per iniziare una settimana diversa dalle altre, una grande congiunzione di eventi», aveva annunciato il leader della France Insoumise, riferendosi non solo alla discussione sul Plf, ma anche agli scioperi organizzati dai sindacati e dai lavoratori delle raffinerie.
Visto da dentro, però, l’autunno caldo di Mélenchon somiglia più a un’ottobrata romana: secondo le forze dell’ordine, al corteo di Nupes hanno partecipato circa 30mila persone (contro le 140mila dichiarate dagli organizzatori) e tra le sue file mancavano all’appello il segretario del partito comunista Fabien Roussel, l’ex candidato ecologista Yannick Jadot e numerosi socialisti. Mélenchon ha voluto infatti chiudere un occhio sugli assenti per difendere l’immagine di una coalizione di sinistra forte e unita e lasciarsi velocemente alle spalle le accuse di violenza di genere che hanno coinvolto a settembre uno dei suoi deputati, Adrien Quatennens.
Le proteste contro l’inflazione sono continuate martedì, quando i principali sindacati hanno riunito più di 107mila persone in numerose città francesi (300mila secondo gli organizzatori). A scendere in strada sono stati soprattutto i lavoratori del settore dei trasporti, dell’energia e della scuola per chiedere l’aumento dei salari. Per i dipendenti pubblici, il ministro Stanislas Guerini ha annunciato che i negoziati inizieranno a gennaio del prossimo anno, di comune accordo con le organizzazioni sindacali. Tuttavia, il segretario del Cgt, il principale sindacato di sinistra francese, ha dichiarato che le manifestazioni continueranno, senza fornire indicazioni più precise.
Nel frattempo, la Cgt continua il suo braccio di ferro con le aziende petrolifere, difendendo la posizione di un centinaio di dipendenti che da inizio settembre hanno bloccato la quasi totalità dei 7 impianti presenti in Francia (4 di TotalEnergies, 2 di Esso-ExxonMobil e uno di Petroineos, l’unico a essere sempre rimasto in funzione).
Davanti all’inflazione al 6,2% (che resta comunque il tasso più basso d’Europa) e agli utili stellari delle compagnie, i lavoratori delle raffinerie avevano inizialmente chiesto un aumento del 10% dei salari: ad oggi, i dipendenti degli impianti di Esso-ExxonMobil sono tornati al lavoro patteggiando un aumento del 6,5% per il 2023, mentre la maggior parte dei dipendenti di TotalEnergies ha rifiutato un accordo con l’azienda che garantiva un aumento del 7%, insistendo sulla cifra iniziale.
Nelle ultime settimane, le proteste dei dipendenti delle raffinerie hanno causato gravi disagi alla popolazione francese, che si è ritrovata a dover fare lunghe code davanti ai benzinai per fare il pieno. Per risolvere la situazione, l’esecutivo di Macron ha disposto un «ordine di precettazione», una misura che impone la fine dello sciopero se questo si rivela una minaccia all’ordine pubblico e che obbliga alcuni dipendenti a tornare al lavoro per garantire i servizi essenziali, e l’arrivo di carburante d’importazione.
La «spinta sull’acceleratore» annunciata dal presidente lo scorso lunedì sembra aver dato i suoi frutti: negli ultimi giorni il numero di benzinai ai quali mancava almeno un tipo di carburante è sceso al di sotto del 25% (contro il 30% dello scorso fine settimana) e gli impianti in cui continua lo sciopero sono scesi a tre.
«Grazie al termine delle ostilità con Esso-ExxonMobil e all’insieme delle misure che abbiamo preso, al momento la situazione è migliorata notevolmente» ha affermato la prima ministra Borne lo scorso martedì davanti all’Assemblée nationale. Macron e il suo esecutivo sembrano aver imparato la lezione dei gilets jaunes: non aspettare l’escalation, ma rispondere ai conflitti il più velocemente possibile e scegliere con cura le proprie battaglie (non a caso, la riforma delle pensioni tanto cara a Ensemble! è stata posticipata a inizio 2023).
Come ha ricordato tuttavia Mark Bassets, corrispondente di El País in Francia, gli scioperi nelle raffinerie e dei lavoratori francesi rappresentano forse la prima situazione di aperto conflitto sociale che deriva dall’invasione russa in Ucraina e che «quel che succede in Francia può essere un campanello d’allarme» per il resto degli Stati europei.