«Ero nel mio ufficio al ministero e da lì ho seguito il dibattito parlamentare sulla dichiarazione di indipendenza. Eravamo coscienti dell’importanza del momento». Il 27 ottobre 2017 Pere Aragonès era segretario all’Economia della Generalitat della Catalogna, una sorta di vice-assessore del governo regionale che oggi guida da presidente.
Nel frattempo, è successo di tutto: una secessione virtuale dalla Spagna; due presidenti destituiti e due elezioni; un caso di spionaggio; arresti e fughe, condanne e indulti.
«Certo, tutto il procés sarebbe potuto andare in modo diverso. Ma è facile dirlo a posteriori. Nelle circostanze di allora, abbiamo fatto tutto il possibile per raggiungere il nostro obiettivo in modo democratico e pacifico», racconta Aragonès a Linkiesta, più amareggiato che pentito di quanto accaduto.
Cinque anni dopo quel temerario tentativo di dare vita a uno Stato nuovo, l’indipendentismo catalano attraversa un momento indubbiamente difficile. In primis perché le forze politiche protagoniste della dichiarazione di indipendenza, che allora marciavano compatte, sono oggi profondamente divise.
Dialogo o confronto
La coalizione di governo si è spaccata: il partito di sinistra del presidente, Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), ha perso l’appoggio della sua controparte di centro-destra, Junts per Catalunya, guidata da Jordi Turull, uno dei sette politici incarcerati per il tentativo secessionista.
Aragonès resterà in sella, cercando l’appoggio dell’aula sui singoli provvedimenti: magari riuscirà a completare la legislatura, ma in un esecutivo dal raggio d’azione molto limitato.
«Condividiamo l’obiettivo dell’indipendenza, ma abbiamo visioni diverse su come ottenerla», spiega Pere Aragonès. Quella di Junts è «unilaterale» e prevede un confronto serrato con lo Stato spagnolo, per forzare la mano grazie a un ampio sostegno popolare.
Qualcosa di simile all’ottobre 2017, quando la Generalitat di Carles Puigdemont propose un referendum sull’indipendenza non validato da Madrid. Poi, con l’avallo del novanta per cento dei votanti (il trentanove per cento della popolazione catalana), dichiarò l’indipendenza e ne subì le conseguenze: dissoluzione del governo regionale e mandato di cattura per i suoi componenti.
Erc invece «scommette sul negoziato, per conseguire un referendum finalmente riconosciuto e valido a livello internazionale», secondo le parole del presidente. Il leader del partito è Oriol Junqueras, braccio destro di Puigdemont ai tempi della secessione e scampato a tredici anni di carcere grazie a un indulto del governo di Pedro Sánchez.
Proprio questo provvedimento di estinzione della pena, deciso nel giugno 2021, sembra per ora il risultato più apprezzabile della cosiddetta «mesa de diálogo», il format di trattative intavolato fra i rappresentanti della Generalitat di Barcellona e del governo di Madrid. «È lo strumento per negoziare una via d’uscita al conflitto politico tra Spagna e Catalogna», spiega Aragonès, sottolineando come «nessuno uscirebbe vincitore dalla rottura del dialogo».
Continuando a parlare, sostiene, qualcosa faticosamente si ottiene: per ora accordi sul metodo, sul numero degli incontri, sull’esclusione del tema linguistico dalle trattative, e una piuttosto vaga intesa per «superare la giuridicizzazione della vita politica in Catalogna».
Ma la tensione rimane alta, anche perché resta aperto il cosiddetto «Catalangate», operazione di spionaggio di massa tramite il software Pegasus, orchestrata ai danni di esponenti politici catalani e scoperchiata dal centro studi canadese The Citizen Lab. «Non serve Sherlock Holmes per identificare i responsabili», aveva detto in un’intervista il presidente Aragonès, dopo aver appreso la notizia.
Ma soprattutto, la «mesa de diálogo» sembra un tentativo di procedere ignorando deliberatamente l’elefante nella stanza, che in questo caso è l’indipendenza della Catalogna. Il governo di Barcellona la vuole, quello di Madrid la nega e per entrambi si tratta di una linea rossa, di un punto impossibile da concedere nel negoziato.
Junts per Catalunya ha abbandonato il tavolo delle trattative prima di uscire dal governo, definendolo «un gruppo di WhatsApp»: «Ci si incontra solo per decidere di incontrarsi di nuovo», secondo la descrizione di Jordi Turull.
Speranze per il futuro
Con un fronte disgregato, una strategia difficile da concordare e una posizione negoziale di necessaria inferiorità rispetto alla controparte, l’indipendentismo catalano può perlomeno consolarsi con un appoggio elettorale sempre robusto.
Nelle due elezioni regionali successive alla dichiarazione d’indipendenza, i partiti che l’hanno propugnata non sono stati «puniti» dagli elettori, riuscendo a conquistare, insieme, la maggioranza dei seggi sia nel 2017 che nel 2021. Nell’ultima tornata, poi, è avvenuto il tanto atteso «sorpasso»: il 50,9 per cento dei voti sono andati a formazioni indipendentiste, che ora possono legittimamente sostenere di rappresentare la «metà più uno» dei cittadini.
Secondo un recente sondaggio, inoltre, il sessanta per cento dei catalani non considera terminato il procés, a prescindere dalla propria opinione sul tema. E proprio dalle prossime urne potrebbe uscire il nuovo capitolo della saga: da quelle catalane, se una mozione di sfiducia dovesse abbattere il governo Aragonès, o da quelle spagnole, previste tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024.
Dalla Generalitat filtra grande preoccupazione per un possibile cambio di colore dell’esecutivo di Madrid: il Partido Popular, che a suo tempo utilizzò il pugno duro contro i catalani ribelli, sarebbe meno dialogante del Partido Socialista di Sánchez. E il quadro potrebbe peggiorare se, per governare, ai popolari servisse l’appoggio di Vox, partito di estrema destra ferocemente contrario all’indipendenza catalana e a ogni forma di concessione autonomista.
Un governo di coalizione di destra potrebbe far saltare la «mesa de diálogo», centralizzare le competenze e inasprire le divisioni in Catalogna, con il rischio di trasformarsi in una «fabbrica di indipendentisti», etichetta già affibiata a quello di Mariano Rajoy, presidente della Spagna nel 2017, per la sua discutibile gestione del referendum separatista.
Per chi da Barcellona spera nella «via pacifica» sarebbe un disastro; per chi scommette sul «muro-contro-muro», forse, una benedizione.