Volevo scrivere un articolo sul Federale. Sulla commedia come chiave di lettura del fascismo, sulla leva calcistica del 1922, su come eravamo quando il gioco era davvero duro e come siamo ora che sono trent’anni che gridiamo al pericolo fascista senza che mai nessuno ci deporti (a parte, naturalmente, i professori trasferiti dalla riforma scolastica di Renzi, il dittatore che ci siamo potuti permettere).
Poi sono andata a Villa Giulia, alla mostra su Luciano Salce. È lì fino al 27 ottobre, poche settimane perché nessuna istituzione romana ha trovato posto per ospitarla più a lungo (grazie, giunte di sinistra, grazie: come faremmo senza di voi a vigilare sulla cultura). Se passate da Roma andateci: vi assicuro che non avete di meglio da fare.
Il federale uscì nell’anno in cui Luciano Salce e Ugo Tognazzi compivano 39 anni. Erano, quelli che non avevano bisogno di cianciare di resilienza perché ce l’avevano connaturata, tutti del ’22: loro due, Adolfo Celi, Vittorio Gassman. Tognazzi no, ma gli altri tre erano entrati nello stesso anno all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Poi arrivò la guerra, che principiò le vite parallele di Gassman e Salce: a uno tutte le fortune, all’altro nessuna (a parte l’enorme talento, che li continuò ad accomunare).
Arruolati a febbraio del ’43, Gassman viene congedato quasi subito. Per Salce va così: l’8 settembre lo fanno prigioniero, lo deportano in Baviera, gli asportano la protesi d’oro con cui gli era stata sostituita la mandibola frantumata in un incidente da ragazzino. Non riesce più a masticare, scappa, lo riprendono, lo mettono coi prigionieri russi, quelli gli rubano il cibo, diventa 35 chili, lo spostano con gli italiani che lo mettono all’ingrasso nutrendolo col burro che hanno fatto una colletta per comprare. Lo liberano il 30 aprile del ’45.
È vergognandomi un po’ a nome dell’epoca che abito, un tempo in cui se hai un’unghia incarnita passi la vita in tv o su Instagram a raccontare le tue dolenze, che riporto il rigo con cui Salce, sul proprio diario, riassunse quel che aveva passato: «1943-1945: due anni difficili» (sospetto che appartenesse alla tipologia gucciniana dei «per la battuta mi farei ammazzare»).
Il bivio con Gassman tornerà più di vent’anni dopo, quando la seconda moglie di Salce, Diletta D’Andrea, lo lascia per Vittorio. Il figlio Emanuele – che ha organizzato la mostra su suo padre «perché nessuno sa niente» – quando i genitori si lasciano ha un anno e mezzo. Chiedo: quindi non hai avuto il trauma di passare da casa di papà a casa di patrigno. Risponde: no, ho avuto il trauma dei vent’anni successivi in cui ho vissuto con Vittorio (tutto suo padre: per la battuta si farebbe ammazzare).
«Poiché non ho potuto avvisare nessuno di questa mia avventura, immagino che i miei saranno molto in pensiero» (lettera di Luciano Salce alla nonna, dal primo campo di prigionia a Modena, settembre 1943); «Spero che anche voi stiate bene e non abbiate troppo da soffrire in questi dolorosi momenti» (qualche giorno dopo, al padre). Pensa oggi. Pensa oggi. Pensa oggi.
Comunque poi Salce torna, e la prima cosa che pensa a fare – la cosa che penserà tutta la vita a fare – è la commedia. Offendendo chiunque nel secolo in cui per offenderti dovevi scrivere su un foglio di carta, affrancare, imbucare. Selezione delle lettere risentite conservate da Luciano e selezionate da Emanuele.
«Ci siamo sentite leggermente offese per quanto lei ha detto nei confronti di quelle signore che nutrono e proteggono i gatti dimostrando se non altro doti di gentilezza. Non usi quel tono di superiore compatimento, è fuori luogo».
«Egregio dottor Salce, il suo sfottimento da un po’ di tempo a questa parte con i Savoia, Umberto e Vittorio Emanuele, è diventato di moda. Perché non vai a sfottere a Nenni a Fanfani a Moro a Saragat oppure al Papa?».
«Lurido verme ruffiano dei sovversivi rossi smettila di infangare ogni settimana la memoria di Gabriele D’Annunzio se ci tieni alla tua salute».
«Signor Lelio Luttazzi. Fallita la speranza della sospensione della grottesca, insulsa e ridicola esibizione del Suo duetto con Salce, che svalorizza lo spettacolo Studio Uno, Le saremmo grati se volesse spiegarci per quale motivo si insiste a ripeterlo, a meno che non si voglia costringere il pubblico a reagire con incivili manifestazioni. Gli spettatori». Mi piace pensare che questi spettatori fossero in particolare indignati per lo sketch in cui Salce aveva, un’unica volta, raccontato la propria prigionia: una stupenda gita in Austria per cui non aveva neppure dovuto pagare il treno.
Come eravamo, quando sapevamo ridere delle tragedie e degli inciampi? Mi sembra di ricordare che fossimo quell’umanità lì, quella d’un foglio dattiloscritto in cui Salce rispondeva alla domanda «Come ci si sente a cinquant’anni?».
«Malissimo. Non parlo spiritualmente, perché a diciassette anni i tormenti dell’animo erano anche peggio. Anzi, lo spirito si è rinfrescato, direi ringiovanito, è il corpo che non tiene alla distanza. Di pomeriggio, lavoro e non lavoro, una gran stanchezza progressiva. A mezzanotte, e si è a letto, e si sbadiglia sconciamente anche in faccia a una bella donna. La mattina, dolori da tutte le parti, le gambe che si rifiutano di scendere dal letto, qualche tentativo di suicidio».
Oggi, che non solo non sappiamo più ridere di noi ma neanche capire i toni di chi sa farlo, se scrivi cinque righe così ti dicono che hai bisogno del bonus psicologo.
Emanuele Salce mi ha detto che ci ha messo nove anni a decidersi ad affrontare gli scatoloni di meraviglie lasciate da suo padre, agendine dove alla F c’erano Fellini e Flaiano e Fenoglio, poesie d’amore per Diletta, lettere di rifiuto di editori a un libro scritto da Luciano e Gassman.
Gli ho detto: tuo padre in quel tempo avrebbe fatto diciotto film. Ha risposto: e nel frattempo avrebbe fatto anche le commedie teatrali, la radio, la tv, e tutto questo stando per la maggior parte dei giorni fuori in barca.
Volevo scrivere del Federale, ma poi mi siamo sembrati così un rimasuglio, noialtri viventi, che mi pareva crudele mettermi pure a dire guardali, quant’erano meglio, quelli che avevano avuto i cazzi veri, e la forza di superarli.