Ho molti amici pasticcieriLa domenica in cui l’Italia sgrammaticata si è indignata per l’ignoranza di Fontana

Twitter è andato su di giri per gli errori del presidente della Camera su un modulo, ma per esperienza personale posso dire che certi sfondoni sono molto frequenti anche tra chi l’italiano dovrebbe conoscerlo bene

Lapresse

C’è la volta in cui, in un articolo su un discorso di D’Alema al congresso dei Ds, il vicedirettore mi aggiunse una «i» a «beneficenza»; quando la mattina diedi in escandescenze, chiamò l’altro vicedirettore, gli disse ma scusa ti avevo detto di guardare sul dizionario, quello rispose ah ma io ho guardato «efficienza», e mentre io mi davo fuoco concluse come sempre concludono gli analfabeti apicali: il dizionario non dice «sbagliato», dice «più raro».

Nessun dizionario dice mai «sbagliato» di niente, come sappia chiunque si sia mai lanciato nella disperata impresa di provare a far parlare italiano a qualcuno dell’internet: a ogni somaraggine che fai notare, riceverai in risposta lo screenshot d’una pagina di dizionario descrittiva. I dizionari hanno smesso d’essere prescrittivi molto prima dei genitori.

Ma non è della volta di «beneficienza», e del mio interrogarmi su come finisca a fare il vicedirettore d’un quotidiano uno che ha bisogno di guardare sul dizionario per sapere come si scriva «beneficenza», che voglio parlarvi oggi per parlarvi del presidente della Camera. È d’un altro trauma, di qualche anno successivo, ma che riguarda sempre una «i». Un trauma più lacerante perché si è sviluppato lungo tre giorni. I tre giorni del somaro.

Scrivevo per le pagine domenicali d’un quotidiano (un altro, non quello di «beneficienza»: l’analfabetismo è distribuito con equità tra le redazioni). Mi chiesero un articolo per la sezione cucina, non mi ricordo il tema ma c’entrava la pasticceria. Erano le pagine domenicali, il che significa che chi ci lavora ha persino meno voglia di faticare di quelli che fanno il quotidiano: ti chiedono di mandare l’articolo molti giorni prima, così si portano avanti e vanno a fare l’aperitivo con calma.

Quindi io mando il mio pezzo e, a metà settimana, mi arriva una mail che dice che l’impaginato è cambiato, ho meno spazio del previsto, e quindi hanno tagliato il mio articolo come segue, dicci se ti vanno bene i tagli. Una volta letto, svenuta, rianimata, e preso un cardiotonico, chiamai il caporedattore, e iniziarono i tre giorni più stremanti di quasi tre decenni di lavori intellettuali fatti quasi sempre interagendo con gente che è incredibile abbia superato le scuole dell’obbligo.

Accadde infatti che nel mio articolo fosse ripetuta la parola «pasticcieri», e tutte le volte in cui io l’avevo scritta giusta il fulmine di guerra che aveva redatto l’articolo aveva ben pensato di privarla della «i». Prendo il telefono e lo chiamo, certa che ci si trovi nell’àmbito delle basi, quelle che magari ti sei distratto e te le sei scordate, ma se te le rammento dirai «ah sì certo» e tutto tornerà a posto. Illusa.

«La desinenza dei mestieri è in -iere: ferroviere, corazziere, pasticciere». «Eh ma questo è plurale». «E secondo te al plurale perde la i? Ferroveri?». «Evidentemente “pasticceri” è un’eccezione: il sito dell’Associazione Pasticceri lo scrive senza i». «Ti dirò che la cosa non mi stupisce poi tanto, considerato che essi, diversamente da noi, sono pagati per saper tirare la sfoglia e non per conoscere l’ortografia». «Tu hai modo di provarmi che il plurale di pasticcieri non costituisca eccezione?». «Cioè secondo te c’è un’eccezione non segnalata da nessun dizionario o libro di grammatica ma io devo provarti che quest’eccezione non esiste?» – immaginate questa conversazione protratta lungo tre giorni, lui sempre col tono di uno che non deve tornare a scuola, io sempre col tono di una che spera non si senta che vorrebbe dargli delle testate sul naso (si sentiva, si sentiva).

Al quarto giorno chiamai il suo capo. Lo so, non si fa. Non si chiama il capo di qualcuno che non sa lavorare per dirgli che non sa lavorare, almeno non nei paesi in cui il capo se non sai lavorare magari ti licenzia. In Italia, dove puoi licenziare gli infermieri precari che fanno i video su TikTok, ma non i capiservizio che non saprebbero rispondere a quesiti grammaticali da seconda media, il capo si limitò a dirgli qualcosa come: ma sei sicuro? Egli ovviamente si rifiutò di ripristinare la grafia corretta ai miei pasticcieri.

Al quinto giorno, per evitare che uscisse un pezzo sgrammaticato con la mia firma sopra, cambiai la frase per evitare il plurale (ricordiamo che Fulmine di Guerra aveva compreso e accettato la regola della «i» al singolare, era sul plurale che non lo fregavi mica). Fu una forma di resa, ma voi cos’avreste fatto al mio posto?

Niente, ve lo dico io, perché non vi sareste accorti che «pasticceri» era sbagliato. Così come non vi siete accorti del conduttore televisivo che la settimana scorsa ha detto che Fontana non si era «schernito», e intendeva «schermito». Però guai se qualcuno scrive «sono certo che è», che non è neppure sbagliato, ma è una delle tre cose che avete imparato lungo l’obbligo scolastico – dopo il «che» ci va il congiuntivo, non si dice «a me mi», e prima della «p» e della «b» ci va la «m» e non la «n» – e guai a chi ve le tocca.

Se fanno i tre errori che siete in grado di riconoscere, improvvisamente diventate fini linguisti. Mentre ne fate altri trenta che neppure sapete essere tali. Mentre fate titoli di prima pagina (grande quotidiano, un mese fa) in cui non sapete distinguere tra il plurale di «camicia» e il singolare del camice medico. (Mi raccomando, lettori: notificatemi la pagina di dizionario che mica dice che «camice» è sbagliato, se ne sconsiglia solo l’uso. Notificatemi che il vocabolario non vi esplicita «tornate a scuola»).

E questo è tutto quel che ho da dire sulla domenica in cui Twitter ha passato la giornata a indignarsi perché, su un modulo alla voce «mestiere», il presidente della Camera Fontana aveva scritto «inpiegato». Una domenica passata a cianciare di lauree (oddio, ne ha tre, com’è possibile; chissà quante ne ha quello di «pasticcere» e quante quello di «beneficienza», e nessuno se ne meraviglia).

Consiglio caldamente a tutti di avere amici docenti universitari: vi faranno vedere certi svarioni di tesisti che vi chiederete a cosa diamine serva l’obbligo scolastico, se poi i laureandi scrivono come i bambini di “Io speriamo che me la cavo”. Tesisti che un domani (se non già oggi) saranno fustigatori, su Twitter, di istituzioni che sanno l’italiano quanto loro, cioè meno dei pasticcieri.

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