Giorgia Meloni trasmette ansia. In questi giorni, poiché evidentemente li vive sulla sua pelle («Non dormo la notte»), sta comunicando al Paese nervosismo, inquietudine, tensione. Ha pensato bene di rinchiudersi a lavorare a Montecitorio per evitare gaffe e scatti di nervi invece di godersi almeno un po’ di quella luna di miele che al vincitore non si nega mai: macché, silenzio assordante mentre gli italiani vorrebbero capire cosa ha in mente.
È talmente nervosa da non tenere per sé l’ira per una intervista di Laurence Boone, nuova ministra per gli Affari europei del governo francese, che a Repubblica aveva osato affermare, sia pure con formula inelegante, che Parigi «vigilerà su rispetto diritti e libertà». Si è offesa, Meloni, aprendo per la prima volta le ostilità con un Paese amico intimando una smentita. C’era bisogno che la non ancora presidente del Consiglio si facesse riconoscere?
Il fatto è che non tollera di essere considerata una vigilata speciale, è l’orgoglio personale oltre che quello nazionale a essere ferito, e da questi francesi poi, eterni antipatici, «sanno tutto loro» come dicono i romani: ed è una prima applicazione, sotto forma di incidente diplomatico, della «pacchia è finita», lo slogan che verosimilmente lei applicherà a qualunque cosa non collimi con l’armamentario nazionalista con una posa non diciamo da ducetta ma da capofazione.
Un brutt’inizio. I nervi, quello è il problema. All’estero si chiedono chi sia e cosa voglia questa giovane leader venuta dal freddo, da noi ci si chiede se sarà una conservatrice o una reazionaria o più probabilmente un mix tra le due cose: una borbonica in quanto a cultura e valori, una neo-dorotea in quanto a tattica di governo?
In ogni caso è un fatto che ha preso a circolare il sospetto che non riuscirà a fare quello che ha promesso di fare (che poi a pensarci bene, ma che ha promesso?) ed è per questo che cominciano a dirle dei no, come ha raccontato Salvatore Merlo sul Foglio non sta trovando nemmeno il portavoce oltre al ministro dell’Economia, quando mai si ci si nega se ti chiama il Principe o la Principessa?
Parlare non può perché sicuramente finirebbe con l’irritare Salvini o Silvio o entrambi, infatti non rilascia un’intervista perché le chiederebbero quale sarà il suo primo provvedimento: e lei non saprebbe rispondere, qualunque cosa proponesse quei due starebbero su: e la flat tax? E l’autonomia differenziata?
Lei sente di avere le mani legate. Dall’Europa, da quei due, gli alleati che prima o poi la faranno cadere e che ora ringhiano per le poltrone così che i conti non tornano mai, ogni giorno Salvini, ferito a morte dal voto, ne inventa una nuova, adesso il ministero per la natalità a misura di leghista; e non si capisce chi subentrerà a Daniele Franco e Roberto Cingolani, due tecnici coi fiocchi, anzi sembra che anche Cingolani gli abbia detto di no, né si è trovato un osso da dare in pasto al leader leghista. Se l’inizio è questo figuriamoci dopo.
E dunque forse i vaticini di Carlo Calenda («Durano sei mesi») e Enrico Letta («È già in difficoltà») non sono solo propaganda ma l’annusamento di un’arietta sgradevole che comincia ad alzarsi.
L’altro giorno mel bunker di via della Scrofa, sede di Msi-An-FdI, a due passi dai vicoli dove secoli fa Caravaggio faceva le sue risse, per la prima volta da quando ha l’Italia in mano Giorgia ha visto le facce dei suoi dirigenti intimandogli di parlare poco, anzi di non parlare affatto dato che qualche ingenuo aveva spifferato la critica meloniana a Mario Draghi sul Pnrr inattuato: un richiamo che la autorelega nella solitudine ansiosa e ansiogena di una Capa che si muove su un terreno incerto e sconosciuto, quello del potere, le sabbie mobili della politica nelle quali finirono ingoiati tanti ben più esperti di lei.