Come in una telenovela della tv del dolore, è andata avanti per settimane la pagina che Repubblica ha dedicato alla crisi del Partito democratico. È un racconto complessivamente un po’ malinconico, in cui illustri pensatori si esercitano al capezzale del grande moribondo con accenti solidali e di buona volontà, spesso autoreferenziali.
Tornano costantemente motivi in gran parte ripetitivi, un po’ lagnosi, nonché analisi scontate su errori e vincoli vari. Certo è dura spiegare di essere testimoni a sinistra della più impensabile tra le svolte politiche della Repubblica: la vittoria della destra, ma proprio della destra, quella vera, postmissina. Non quella che per affermarsi ingannando il proletariato, ha usato i potenti mezzi di distrazione delle tv commerciali, o quella populista che ultimamente rubacchia qualche parola d’ordine progressista in un mix di protesta, Cgil, piazze, pacifismo utopico.
Poi, di colpo, arriva un fatto nuovo, diverso. Nel lungo dibattito, interviene, con la sua prosa morbida e colta, Gianni Cuperlo, il ghost writer dei bei tempi, il monello che si ribellava alla finzione delle primarie prefabbricate, e non usa il verbo rifondare per gattopardismo, come tanti. No, lui va giù duro: il Partito democratico ha «perduto la reputazione». La rifondazione deve essere totale – «non solo statuto, ma classi dirigenti e processi di selezione» – e la scaramanzia non gli impedisce di evocare la brutta fine della sinistra in Francia, spettro storico di tutte le sinistre: Mitterrand che si mangia il fratello a sinistra.
È pesante quel riferimento alla reputazione, perché è pensiero forse benevolo, ma diffuso, che il Pd abbia pagato salato proprio il suo essere troppo per bene, farsi carico dei problemi del Paese, bere gli amari calici delle cose giuste perché necessarie, come il jobs act (di cui non noi, ma Cuperlo, condivide il ripudio, ma non capisce giustamente perché farlo intempestivamente).
Il ragionamento è elegante, non è greve come quello di Zingaretti che tout court «si vergognava» del suo partito, ma l’analisi è la stessa. C’è davvero un problema reputazionale.
Per questo, occorre appunto rifondare tutto: accettare le «rotture necessarie», smantellare una dirigenza politica che si è fatta burocrazia, perché non corrisponde più allo spirito positivo e generoso dei suoi militanti, sull’orlo di una crisi di nervi dopo il carosello delle candidature garantite da esportazione nei collegi sicuri.
Solo dei burocrati astuti potevano applicare così sfacciatamente una legge elettorale che non hanno voluto e saputo modificare, sveltissimi però a rifugiarsi nelle soffici coltri del proporzionale, mai nella contesa del maggioritario, che pur piace tanto a parole, come da dogma della scuola di Bologna, di cui è allievo non pentito Enrico Letta.
Almeno, il vituperato D’Alema, ai tempi del Mattarellum, aveva rischiato davvero la non rielezione in un pari o dispari in quel di Gallipoli. Altra tempra. Oggi tutti bravi a perdere le elezioni comunali a La Spezia o a Ferrara, e poi andare a rifugiarsi quatti quatti chissà dove. Solo i naif alla Cottarelli vengono mandati allo sbaraglio a Cremona.
Dunque rifondazione, ma di solito rifondare significa ritornare alle origini, mentre in questo caso la necessità è di ristrutturare e rilanciare in avanti. E qui, allora, la riflessione di Gianni Cuperlo si congiunge, quasi in contemporanea, a quella di un Michele Salvati che con una paginata su il Foglio rivendica di avere detto certe cose sulle scelte di fondo del riformismo fin dai tempi della fondazione del Pd, senza scoprirlo solo ora.
Salvati pone il problema grave dell’essere tutti fuori tempo massimo in questo dibattito, perché – rimandando rimandando – alcune cose sono già successe ed è difficile rimettere il dentifricio dentro il tubetto.
Il rimbalzo non sempre coerente tra anima riformista e pulsione conservatrice, con la riserva mentale che dirsi socialdemocratici è ancora una parolaccia impronunciabile, è andata avanti per quindici anni con alterne vicende a seconda dei risultati elettorali – dal 33 per cento di Veltroni al quaranta di Renzi, al diciotto di Letta, sempre con rapide conversioni sulla zattera vincente – senza risolvere la contraddizione con un vero dialogo e scambio tra le due parti, utile alla costruzione di una sinistra moderna, e aggiungeremmo europea, se non fosse che anche in Europa le cose vanno maluccio e i Corbyn e i Malenchon hanno lasciato brutte code.
Ottimisticamente, Salvati spera ancora in una soluzione, anche congressuale, all’impasse attuale, partendo dal presupposto che sarebbe sbagliato rinunciare all’esistenza stessa del Pd. Il problema è che le due posizioni – quella attenta all’efficienza del sistema e alla crescita, come soluzione del disagio sociale, e quella protesa a dare risposte acritiche alla sofferenza di ceti un tempo di sinistra quasi per definizione – sono oggi separate dagli elettori stessi del 25 settembre che hanno scelto da un lato un partito dell’ ultima ora come Azione, e dall’ altro, senza parlare di Fratoianni cooptato, hanno premiato l’arruffato progressismo postpentastellato di Giuseppe Conte.
Riportarli tutti all’interno di uno stesso contenitore è davvero impresa ardua, visto che Calenda suona il campanello ai riformisti restati in casa Pd perché lo mollino e il Pd ancora a trazione Goffredo Bettini lascia intendere ravvedimenti operosi sul campo largo da rilanciare.
Per riuscire a venir fuori da una crisi così – magari aiutati, dice Salvati, da una caduta di credibilità a breve termine della destra, vista la volubilità degli elettori – occorrerebbe una classe politica davvero diversa, di cui non si vede traccia, se è vero che la più innovativa in circolazione sembra essere tale Elly Schlein, neppure iscritta al Pd.
Bisognerebbe come prima cosa buttar via lo Statuto e l’annessa mentalità fondante. Molto semplicemente perché non ci sono più i contesti di quando – quindici anni fa – il Pd nacque. Allora c’era l’ultima fase vigorosa dello pseudo federalismo leghista e non bastando un po’ di trasformismo sul Titolo V e sui decreti Bassanini, si sottopose anche il partito a forme federali del tutto velleitarie.
Ma era anche il periodo del populismo montante e dunque giù rimedi di stile pentastellato. Critiche al finanziamento pubblico dei partiti (cavallo di battaglia di Letta), scelta contro le preferenze perché corruttrici, cancellazione della rappresentanza nelle Province con l’orribile legge Del Rio, solo per risparmiare sui gettoni di presenza, riforme del Senato cervellotiche (made in Renzi), gazebi anziché dibattiti, agorà noiosissime e spaccacapelloindue, anziché tesi congressuali contrapposte sui problemi veri, cooptazioni, finta alternanza di genere con esiti maschilisti, esasperata ed esclusiva esposizione del ruolo del parlamentare (se esci dal giro, non esisti più), ma anche sciocchezzaio vario su tutto ciò che liscia il pelo all’antiparlamentarismo: incarichi onerosi gratuiti, vitalizi addirittura retroattivi, applausi al bravo Fico che va alla Camera in bus.
Insomma, tutto un bel repertorio di illusioni prima per assorbire e smussare la Lega montante, poi per competere con i pentastellati. E soprattutto – conseguenza di tutto questo – poca politica, poca focalizzazione del messaggio, con una contrapposizione tra riformisti soltanto per disegnare meglio le correnti. Chi è più riformista tra Franceschini e Guerini e perché stanno in correnti diverse?
E infine, il colpo di mano di richiamare Enrico Letta da Parigi, non per ragioni di scelta politica, e quindi incoronato senza dibattito, ma solo perché, se arriva lui, non vinco io ma almeno non vinci tu. Il segretario via di mezzo.
E così per mesi, in attesa di un Congresso che molti proprio non vorrebbero, un segretario dimissionario che però ha tutti i poteri e dà la linea più di quanto non facesse prima, e il fiorire di legittime ambizioni casuali. Perché non il Sindaco di Pesaro, perché non la deputata di Piacenza? Con Stefano Bonaccini che per ora può solo misurare il clima di poco entusiasmo che accompagna la sua unica vera candidatura. Non ci sono piazze che lo invocano.
Rifondazione, dunque, significa poco se non c’è qualcosa di più profondo che si muove all’interno di un mondo complessivo, quello della militanza, che è il patrimonio più genuino di questo partito, che è vicino alla soglia-zoccolo duro, e forse più sotto di così non andrà.
Resisterà, perché un partito medio grande della sinistra, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Ha ragione Salvati e torto Rosy Bindi: non va sciolto, deve trovare in se stesso le energie per risorgere. Si scelga anche l’opzione sbagliata, ma lo si faccia almeno.
Quella sicuramente da sciogliere sarebbe la classe dirigente, ma si è appena conquistata con la forza l’ultimo giro in Parlamento, senza avere la necessaria reputazione, come dice Cuperlo. Sarà dura naturalmente, perché le cattive abitudini del trasformismo tenteranno di riemergere e dunque è difficile pensare a un Congresso vero, che dia vita ad una vera perestroika, cioè una vera revisione del suo modo di essere, e soprattutto una nuova carta dei valori, decidendosi, una volta per tutte, a sciogliere lo storico nodo del riformismo.
Michele Salvati è ottimista, noi molto meno. Argomenti di riflessione non mancherebbero. Sono più o meno cinquant’anni che Olof Palme indicò la strada (combattere la povertà, non la ricchezza), trenta da quando Tony Blair diede orgoglio ai laburisti (poi non hanno più toccato palla), venti da quando Veltroni parlò al Lingotto, e forse nell’elenco dei buoni consigli sarebbe anche giusto mettere il Claudio Martelli del discorso sui meriti e bisogni di Rimini.
Per portare al centro del vero dibattito non l’ennesimo compromesso, ma l’esito sincero di un ripensamento, il Pd ha davvero bisogno di essere attrattivo verso un cerchio esterno competente e adeguato ai tempi, e di un leader vero, che sappia trascinarlo lontano dal declino. Perché il 15 per cento, roccaforte dei delusi, è declino e ne soffre e soffrirà non solo la sinistra, ma il Paese.