«Andiamo a correggere»Il mare della lingua italiana è inquinato da plastismi impossibili da riciclare

Nel parlato si tende spesso a usare una espressione inutile che serve solo a guadagnare tempo in attesa di trovare le parole giuste. È il caso di “quelli che sono” usato al posto del corretto “quali sono”. Altrettanto antipatico è dire “andiamo a cuocere”, uno scimmiottamento del francese e dello spagnolo, tanto caro al linguaggio dei programmi di cucina

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“…e con i dati di questo rapporto andiamo ora a vedere quelle che sono le conseguenze…”. Un lacerto di frase, pochi secondi di parlato e due dei tic linguistici più dilaganti e molesti. Si chiamano “plastismi”, brutto neologismo per una brutta patologia verbale acutamente diagnosticata da Ornella Castellani Pollidori nel suo La lingua di plastica (Morano 1995): ossia quell’insieme di espressioni finte, superflue, preconfezionate che intasano il linguaggio come le isole di plastica gli oceani. 

Dall’implacabile “piuttosto che” in senso disgiuntivo all’indecifrabile “quant’altro”, da “assolutamente sì” a “nella misura in cui”, “portare avanti il discorso”, “tutto e il contrario di tutto”, “solo e soltanto”, “fare un passo indietro”, “alle prime luci dell’alba”, “brancolare nel buio”, “caccia all’uomo”, “a 360 gradi”, “massimo riserbo”, “antico splendore”, “fortemente voluto”, “la madre di tutte le”: il catalogo (incompleto) è questo, se in Italia non sono seicento e quaranta, poco ci manca. 

Di qualcuno di questi materiali inquinanti Linguaccia mia si è già occupata, di altri si occuperà. Oggi però si dedicherà alla raccolta differenziata, concentrando l’attenzione sui due evocati all’inizio, dotati di una preoccupante carica radioattiva: “quello/a che è” (e relativi plurali) e “andare a” + infinito.

Tipici fenomeni diasafici, in cui il registro comunicativo varia in relazione al contesto, con una rilevante componente diamesica, in cui incide altresì il mezzo attraverso il quale avviene la comunicazione, entrambi questi costrutti, per quanto stiano cominciando a contaminare anche il linguaggio scritto, si ritrovano soprattutto nel parlato, segnatamente nel parlato con qualche malriposta pretesa di formalità e innalzamento stilistico. Difficile riscontrarli in una situazione dialogica, riemergono prepotentemente, e con esasperante intensità iterativa, in presenza di un uditorio, davanti a un microfono o una telecamera, o anche al taccuino di un giornalista. Entrambi, va sottolineato, perfettamente inutili.

Andiamo a soffermarci, intanto, su “quello che è”: un sintagma che, salvo in alcune circoscritte occorrenze, nella costruzione della frase si può tranquillamente eliminare, o in determinati casi sostituire con un più acconcio “quale/i è/sono”. Un paio di esempi, ricavati, ahinoi, dai giornali. “Non abbiamo ancora raggiunto quelli che sono i livelli di sicurezza che…”: è lo stesso, soltanto più gonfio, che dire “non abbiamo ancora raggiunto i livelli di sicurezza” (ma almeno, in questa circostanza, veniva riportata una dichiarazione virgolettata). “Una volta accertate quelle che sono le notizie false e quelle che sono le notizie vere…”: bastava scrivere “quali sono le notizie false e quali sono le notizie vere” (questo invece era proprio il periodare del giornalista).

Perché si avverte la spinta incoercibile a siliconare in questo modo il linguaggio, con effetti non meno grotteschi di certi accanimenti della chirurgia plastica sui volti di indomite vamp sul viale del tramonto? Una ragione di strategia orale è quella spiegata da Paolo D’Achille in risposta alle domande dei lettori sulle pagine online dell’Accademia della Crusca: il ricorso a “quello che è”, nell’ambito di un discorso a braccio, consente di rallentare il “dinamismo comunicativo” guadagnando il tempo necessario a compensare il vuoto di progettazione e trovare la parola adatta. Ma, come evidenzia lo stesso linguista, il sintagma può anche prestarsi a due implicazioni di segno contraddittorio, decodificabili in base alle sfumature nel tono della voce: può cioè rendere più generico il significato di una parola, ampliandone l’orizzonte semantico e così attenuandone la perentorietà (tecnica di mitigazione), oppure può enfatizzarlo (tecnica di ridondanza), sottolineandone la concretezza grazie al valore esistenziale incluso nel verbo essere e alimentando nel contempo l’attesa dell’ascoltatore.

Bisogna tuttavia osservare come nella pervasività dell’uso sia soprattutto la componente imitativa-emulativa a prevalere, conducendo quasi automaticamente a uniformarsi a un registro avvertito come standard, con il risultato di logorare (oltre ai nervi del pubblico linguisticamente più sensibile) ogni eventuale intenzione espressiva. E così depotenziato, come ha osservato un’altra linguista, Roberta Cella in Storia dell’italiano (il Mulino 2015), “quello che è” diventa un mero equivalente, soltanto più esteso, dell’articolo determinativo (“quello che è il ricorso alle frasi fatte” anziché “il ricorso alle frasi fatte”).

L’altro plastismo che imperversa, “andare a” + verbo all’infinito, pare si sia diffuso a partire dalle tante e non meno imperversanti trasmissioni televisive dedicate alla cucina, quando si vede una persona intenta a preparare un piatto che farcisce le sue spiegazioni di “andiamo a” sbucciare, tagliare, cuocere e via (si può ben dire) di questo passo: tanto che si parla di “italiano gastronomico”. Dalle istruzioni culinarie del piccolo schermo il costrutto è tuttavia esondato a ogni genere di contesto didattico-tutoriale, dove non ci si limita più a osservare, verificare, illustrare, procedere ecc., ma si va a osservare, verificare, illustrare, procedere (andare a procedere!) ecc. “Ma ’ndo vai…”, verrebbe da dire con l’Alberto Sordi di Polvere di stelle. È tutto un gran movimento in cui il verbo andare perde il suo valore spaziale per acquistarne uno temporale-imminenziale che lo avvicina a analoghe espressioni fraseologiche straniere, dal francese aller + infinito (a cui è riconducibile il calco italiano più antico, di un paio di secoli precedente l’era televisiva, di cui rimane traccia in locuzioni come “lo spettacolo va a cominciare”, “il gioco va a terminare”), all’inglese to be going to e allo spagnolo ir a, entrambi seguiti dall’infinito.

E in tutto questo agitarsi, quello che è il nostro linguaggio quotidiano va a allungarsi e ingolfarsi inesorabilmente. Il che è tanto più singolare in un’epoca che in altri contesti comunicativi indulge invece all’abbreviazione dei vocaboli, dagli info e promo delle pubblicità commerciali ai tranqui, situa, ape, fra, bro del gergo giovanile. Ma, come è risaputo, della plastica accumulata non è facile liberarsi: per riassorbire quella che inquina il linguaggio, almeno, non dovrebbero occorrere mille anni.

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