Anna Politkovskaja fu uccisa nell’ascensore del palazzo in cui abitava nel giorno del cinquantaquattresimo compleanno di Vladimir Putin, il 7 ottobre 2006. Da anni, con gli articoli su Novaya Gazeta e con alcuni libri, che ebbero ampia circolazione anche fuori dei confini nazionali, descriveva la nascita e l’affermazione del regime putiniano e il fallimento delle speranze democratiche della Russia post-sovietica e indagava nel dettaglio i crimini perpetrati in Cecenia dalle truppe di Mosca e dalle milizie locali del Quisling islamista Ramzan Kadyrov, che Putin nominerà nel 2007 Presidente per meriti anti-terroristici e che ne avrebbe fomentato e accompagnato il delirio fino ai nostri giorni.
Putin, dopo l’omicidio, affermò sprezzantemente che l’influenza della giornalista uccisa sulla vita politica russa era sopravvalutata, che la sua morte avrebbe fatto più danni dei suoi scritti e che dietro a questo crimine avrebbe potuto esserci qualcuno interessato a delegittimare le autorità ufficiali.
Il processo che seguirà e che si trascinerà per molti anni porterà ad alcune condanne per il presunto esecutore materiale e per i suoi complici, ma non farà luce sui mandanti dell’omicidio. La Corte europea dei diritti dell’uomo, su ricorso dei familiari della vittima, condannerà nel 2018 la Russia per la violazione dell’art. 2 della CEDU, proprio per non avere voluto approfondire l’ipotesi investigativa del coinvolgimento dei servizi di sicurezza russi e ceceni, per accertare la responsabilità dell’omicidio.
Tre giorni dopo il delitto, il 10 ottobre, ai funerali di Anna Politkovskaja parteciparono giornalisti e intellettuali russi, molta gente comune, nessun rappresentante delle istituzioni di Mosca e nessun politico europeo, tranne Marco Pannella, che con il Partito Radicale era da anni impegnato, esattamente come Politkovskaja, a illuminare lo scenario ceceno come vero e proprio laboratorio del regime putiniano.
Sia Pannella sia Politkovskaja avevano infatti capito che dalla seconda guerra cecena non sarebbe solo uscita distrutta la piccola repubblica caucasica, ma la speranza di una effettiva democratizzazione della Russia. Riportando l’ordine in Cecenia con un regime criminale, la Russia stessa sarebbe diventata, su più vasta scala, un sistema di potere modellato sulle caratteristiche dell’emirato mafioso di Kadyrov. I fatti hanno dato loro ragione. Alla fine Putin non ha solo portato la sua Mosca a Grozny, ma ha soprattutto riportato la sua Grozny a Mosca.
I radicali, prima e dopo l’omicidio della giornalista russa, provarono in tutte le sedi internazionali, dall’Onu al Parlamento europeo, a denunciare un pericolo che stava emergendo con assoluta nettezza e furono anch’essi costretti a piangere un militante coraggioso e appassionato, l’inviato di Radio Radicale Antonio Russo, ucciso del 2000 a Tbilisi, proprio mentre era impegnato a documentare i crimini di guerra in Cecenia.
In quegli anni, il Partito radicale portò ovunque la testimonianza diretta di Umar Khanbiev, ministro della Sanità del Governo ceceno in esilio, sull’uso delle stragi indiscriminate, degli omicidi e della violenza contro i civili, della tortura, degli stupri e dei rapimenti come strumenti paralleli a quello militare e largamente impiegati per piegare la resistenza cecena. Verità mostruose ma incompatibili con l’immagine edulcorata che del regime putiniano e della sua guerra “anti-terrorista” si preferiva dare in Occidente, scegliendo stolidamente di iscrivere quella campagna militare criminale nel palinsesto delle operazioni anti-islamiste, che in tutto il mondo erano in corso dopo l’11 settembre 2011.
Bisognerebbe però ammettere che si è trattato di un’operazione anti-islamista dai connotati grotteschi e paradossali, se il suo risultato fu quello di istituire a Grozny un regime che applica la sharia e che dopo la strage di Charlie Hebdo portò centinaia di migliaia di persone in piazza a protestare non contro il massacro dei vignettisti, ma in difesa di Maometto.
Dopo essersi presentato al cimitero Troekurovskij di Mosca ai funerali di Anna Politkovskaja, rivendicando insieme il peso e l’orgoglio delle rispettive solitudini, Pannella tornò subito a esprimere uno sdegno, cui le successive imprese del regime putiniano e le notizie quotidiane dall’Ucraina conferiscono quasi una luce profetica.
«Meno di 24 ore fa – disse intervenendo nell’emiciclo di Bruxelles – ero a Mosca e per un’istante stavo per prendere la fascia da parlamentare europeo mentre ero in mezzo alle migliaia di persone che rendevano l’estremo omaggio ad Anna Politkovskaja. Poi ho pensato che sarebbe stata un’offesa per quegli occhi, che pure non potevano vedermi, vedere inalberato il nostro emblema. Ci ha raccontato, questa donna, questa giornalista, quello che non avete voluto sentire e non avete voluto vedere».
Come previsto da Pannella e da Politkovskaja l’orrore che l’Europa non aveva voluto vedere si sarebbe ripresentato in forme ancora più vaste e mostruose. Le fosse comuni di Bucha e Izjum iniziarono a essere scavate proprio negli anni in cui si finse di non vedere riempirsi le fosse comuni sulle montagne cecene, quando il capobanda del Cremlino veniva presentato come un partner alleabile e una garanzia di stabilità, e non solo gli amici di Putin, ma la generalità dei politici europei garantivano sulla sua affidabilità e sul necessario riconoscimento della sua leadership per non abbandonare la Russia a pericolose frustrazioni e convulsioni post-imperiali.
È accaduto, come vediamo, esattamente il contrario, cioè tutto quello che Pannella e Politkovskaja dicevano sarebbe conseguito alla stupida pretesa di fare coincidere la legittimazione di Putin con la sua neutralizzazione.