Se per alcune persone parlare di podcast rappresenta solo un’occasione di dialogo con i propri amici, per molte altre l’ascolto di questi contenuti audio si è consolidato come una vera e propria abitudine quotidiana, specie dopo le fasi acute della pandemia. Interrogarsi su cosa esattamente abbia reso l’universo dei podcast così celebre può risultare complicato, trattandosi di un’attività multitasking che ha la possibilità di “congelare” la storia a qualsiasi punto dell’ascolto.
Non avendo limiti legati alla riproduzione, il podcast è un contenuto che dispiega migliaia di scenari d’interazione con gli user, che possono fruire di ciascuna puntata in svariati modi. Tutto ciò è reso possibile grazie alle varie piattaforme di streaming su cui questi contenuti sono caricati. Tuttavia, Il podcast come prodotto si sta già aggiornando e offre pian piano nuove funzionalità adatte alle esigenze sempre più specifiche degli utenti.
L’offerta è ampia: alcune fra le serie più apprezzate sono basate su fatti accaduti realmente, altre invece si contraddistinguono per la loro abilità di articolare la narrativa assecondando il processo d’immaginazione dell’ascoltatore. Quando ci si trova nelle vicinanze di uno specchio, capita di percepire una sorta di attrazione e a tutti i costi ci si vuole confrontare con l’immagine riflessa. Lo stesso accade con il podcast, un fenomeno nel quale ci si intravede e che è in grado di stimolare una curiosità più intensa nei confronti di sé stessi e della realtà.
Chora Media, la più nota piattaforma di podcast production in Italia, ha intuito come questi contenuti audio si potessero inserire nella routine delle persone, al fine di stimolare l’immaginazione e il bisogno di informarsi degli utenti. In più, sta sperimentando strategie di monetizzazione dei podcast finora molto acerbe nel nostro Paese. L’ingresso dei format audio nell’immaginario degli italiani è stato reso possibile grazie a una tattica ben precisa. Più specificatamente, sfruttando la fatica data dal troppo tempo trascorso davanti agli schermi, Chora ha voluto comunicare una nuova idea: “Non basta più vedere, bisogna sentire”.
Tra le nuove uscite targate Chora c’è “Derive”, nuovo podcast “itinerante” prodotto da Chora in collaborazione con Trainline che ha esordito il 16 settembre su tutte le piattaforme ad hoc. In “Derive”, Ema Stokholma, celebre dj e autrice di “Per il mio bene” – autobiografia pubblicata da Harper Collins – si cala nei panni di Caronte e traghetta gli ascoltatori a spasso per alcune città italiane, come Roma, Bologna e Firenze. Ascoltando questo podcast, accade di sperimentare varie fasi emotive.
Dopo aver messo in play una puntata, tutto può accadere: dal risveglio della propria infatuazione per le meraviglie della nostra penisola fino a un senso di inquietudine insolito (che emerge mentre si sta attraversando un vicoletto ombroso a fianco di Ema). Ad ogni modo, Derive è l’esempio di un contenuto di qualità, la cui manifattura combina alcuni elementi introspettivi a un esercizio tecnico costante che si riconosce dalla raffinatezza della scrittura al sound ottenuto dal lavoro dei fonici in studio.
In occasione dell’uscita di “Derive”, Linkiesta Eccetera ha intervistato il suo autore: Ivan Carozzi, giornalista (è stato caporedattore di Linus), autore e scrittore di romanzi e di saggi, che recentemente ha scritto anche il podcast “Frigo!!!”, dedicato alla storia di Frigidaire, «la più creativa, esplosiva e imprevedibile delle riviste italiane». Con lui abbiamo approfondito la metodologia necessaria per la buona riuscita di un podcast in un periodo storico in cui l’offerta sta aumentando (e farsi notare è sempre più complesso).
Come si fa scrivere un buon podcast, bello e redditizio, nel 2022, quando ogni settimana arriva qualche novità?
«Innanzitutto serve una bella idea, potente, originale. Si può andare anche a rimorchio di un trend o dell’attualità, tornare su luoghi e fatti già raccontati, come ha fatto Indagini di Stefano Nazzi, che so aver avuto un buon successo e io stesso ho ascoltato con piacere. Un podcast è anche la possibilità di raccontare di nuovo ciò che è già stato raccontato, lavorando come orafi o fabbri su un canale sensoriale diverso, che è quello dell’udito. Tuttavia credo che lo sforzo che dovremmo sempre fare è quello di trovare un’idea spiazzante, originale o una storia che non è ancora stata raccontata. Poi servono una voce, uno stile, una scrittura che si aggrappa all’orecchio e un incipit che si offra all’ascoltatore come un varco verso un mondo seducente. Poi servono ospiti con una voce forte e partecipe. Infine, servono archivi e documenti preziosi, che riescano a testimoniare un lavoro di ricerca, non pigro ma profondo e appassionato. L’ascoltatore deve stupirsi di fronte a un percorso di senso aperto da un archivio o da un documento sorprendente. Credo che alla fine, se si seguono questi passi, il podcast si rivelerà un oggetto «redditizio», qualsiasi cosa si voglia intendere con questa parola, e un oggetto speciale e preferibile all’interno di un’offerta molto ampia».
Come si fa a essere originali in questo mare di podcast?
«A mio parere, occorrono idee e scrittura. E per trovare un’idea bisogna essere attenti nella vita di ogni giorno, guardarsi intorno, ascoltare, leggere, possibilmente camminare molto, spostarsi, viaggiare. Per scrivere bene occorrono esercizio quotidiano, lettura e capacità d’imparare dagli altri autori, rubando con stile idee e spunti che magari ci hanno aperto una nuova comprensione delle cose».
Com’è cambiato il modo di scrivere podcast dopo il boom degli ultimi anni?
«Come in tutti fenomeni che diventano piano piano di largo consumo, ci sono dei cliché che si sono imposti, che hanno fatto scuola, sia nella scrittura che nel sound design, generando manierismi e automatismi. Personalmente soffro molto una certa prevalenza dello storytelling e confezioni sonore che a volte sembrano incarnare il racconto come un cioccolatino. Però è un linguaggio molto in movimento, con tante teste e professionalità al lavoro, dove spesso capita di sentire soluzioni originali e intuizioni brillanti anche in prodotti di non eccelsa qualità».
Parlaci di “Frigo!!!”
«È nato da un’idea di Nicolò Porcelluzzi, che poi mi ha proposto di diventare coautore del progetto. Io e Nicolò siamo grandi amici, facciamo lunghe chiacchierate sul mondo e abbiamo molte ossessioni in comune. Una di queste era la vecchia rivista Frigidaire. Perciò, quando mi ha proposto di lavorare al podcast su Frigidaire, ho accettato con enorme entusiasmo. Non vedevo l’ora di partire. Per diversi mesi nella mia testa non c’è stato altro che Frigidaire. Ci siamo immersi dentro questa storia sentendo anche una grande responsabilità. Dovevamo essere all’altezza di una storia culturale e controculturale importante. Eravamo allievi che stavano parlando di grandi maestri: Vincenzo Sparagna, Andrea Pazienza, Stefano Tamburini, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli. Siamo stati perfino massimalisti, in un certo senso: puntate dense, lunghissime, tanti ospiti, documenti, archivi, una grande eterogeneità dei contenuti, qualche piccolo e timido episodio di sperimentazione. Non potevamo non provare a pensare in grande, del resto, dovendo scrivere di una storia tanto importante e seminale, i cui protagonisti erano a loro volta abituati a pensare in grande. Per questa ragione abbiamo pensato di coinvolgere nel progetto mio fratello Massimo come sound designer. E devo dire che anche l’orecchio più distratto si è accorto che in Frigo!!! c’è stato un lavoro sul suono che ha fatto la differenza. L’altra preoccupazione è stata quella di trovare un modo e una voce per parlare nel 2022 a più persone possibili, nel rispetto di una vicenda che fu controculturale, senza tradirla. Ci sentivamo addosso gli occhi di Stefano Tamburini, figura per noi molto intimorente. Stefano Tamburini non c’è più. Credo che se dovesse ascoltare il podcast, non so come, probabilmente non apprezzerebbe del tutto Frigo!!! e magari ci dedicherebbe un commento sprezzante. Se così fosse, amen. Lo accetterò».
Ora arriviamo a “Derive”, il nuovo podcast con Ema Stockholma
«Derive è un lavoro che mi sta piacendo moltissimo e devo dire di essermi trovato meravigliosamente con Ema. Ci siamo incontrati solo qualche volta, ma ci siamo capiti al volo. Non capita sempre. È un viaggio in sei grandi città italiane: Roma, Milano, Torino, Firenze, Bologna e Napoli. Ogni spostamento avviene in treno e le stazioni sono i punti di entrata e uscita del racconto. Ema procede un po’ alla cieca, compie appunto delle «derive», il che è un ottimo metodo per viaggiare e conoscere i luoghi. Per ogni città abbiamo scelto una serie di luoghi da raccontare e per ogni luogo una voce. Si tratta di luoghi meno noti, che in qualche modo restituiscono un punto di vista e un «suono» diverso in quello spartito che è la storia e la vita quotidiana di una città. Qualche esempio: a Torino abbiamo visitato la sala di un ex cinema porno, oggi sede di un’associazione culturale, uno spazio davvero affascinante, magico; a Napoli siamo scesi sotto un palazzo del Rione Sanità, dove si trova uno splendido ipogeo del III secolo a.C, e poi siamo stati con Francesco Lettieri, regista dei video di Liberato, nel complesso residenziale progettato da Aldo Loris Rossi, che fu la location del video di “Nove maggio”. Inoltre, mi ha fatto particolare piacere che tutto questo viaggio si sia svolto grazie a un mezzo che amo, ovvero il treno».
Guy Debord, pioniere del concetto di “Derive”, illustra come i territori da noi esplorati siano costruiti da immagini che il nostro cervello elabora, fondendo ricordi con ricostruzioni mentali del Paese che ci circonda. Lei pensa che questo meccanismo sia stato condizionato dalla pandemia? Come possiamo affezionarci a questi luoghi psicogeografici in un contesto culturale come quello odierno?
«Senz’altro, le città durante la pandemia si sono rivelate ai nostri occhi – e orecchie – in modo diverso. Nel periodo del lockdown avevano assunto questo aspetto da romanzo di fantascienza che personalmente apprezzavo, al di là delle angosce che ovviamente abbiamo provato tutti. Credo che sulla vita e l’aspetto delle città abbiano influito molto di più altri processi, come la gentrification, lo strapotere della grande distribuzione, il turismo di massa e anche una certa prevalenza dell’immagine sulla realtà, concetto molto caro sempre a Guy Debord. Faccio un esempio. Ricordo i miei primi viaggi in Europa negli anni Novanta, in epoca pre-internet e pre-globalizzazione. Andare a Londra significava davvero entrare in contatto con culture e sottoculture di cui avevi letto qualcosa su mezzi molto lenti come riviste e giornali, ma di fatto queste realtà t’investivano con la loro potenza e novità, essendo oggetti sconosciuti ed estranei alla tua esperienza. Ricordo strade attraversate a Londra, in epoca rave, dove tutto era nuovissimo e sconosciuto ai miei occhi. Recentemente, invece, i centri urbani delle città si assomigliano tutti, a causa di un processo di omologazione che ha cancellato l’identità dei luoghi e anche per una famigliarità con il mondo che abbiamo già acquisito attraverso immagini, informazioni, eccetera».