Pagine sparseDiario di un’ucraina a metà tra l’Italia e il suo Paese, prigioniera di realtà distanti tra loro

Vivo la guerra tramite i messaggi dei miei parenti e dei miei amici: afferro brandelli di immagini di città bombardate e seguo il canale Telegram dell’esercito. Sono con loro, ma al tempo stesso sono anche lontana, sotto un altro cielo a guardare con il fiato sospeso cosa succede

LaPresse 29 Maggio

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Mi ricordo il momento preciso in cui è iniziata l’invasione russa nel Donbas. Ero nella mia cucina e dietro le finestre aperte sbocciava il maggio di Kyjiv. Kyjiv è più bella a maggio e a ottobre. Sul davanzale profumava il basilico, che avevo piantato io a marzo, poco prima che la Russia annettesse la Crimea. Avevo appena lavato i piatti, attenta a non bagnare con gli schizzi il computer che era lì accanto per mostrarmi sullo schermo le lunghe file dei camion russi con gli “aiuti umanitari” che attraversavano il confine all’Est dell’Ucraina. Sapevamo benissimo che aiuti erano. È iniziata la guerra, ho pensato, ed era lì, in diretta sul mio schermo del computer. Mi sono aggrappata al lavandino di metallo con la cornice di legno, l’unico punto fermo in quel momento. Il basilico emanava l’odore dell’Italia così lontana e della realtà kyjiviana così vicina, ma io comunque sentivo in bocca il sapore di polvere alzata in aria dalle ruote di quei camion “umanitari”.

Quel sapore impastava la lingua, faceva venire sete, bloccava i polmoni. Da quella cucina ho chiamato i giornalisti italiani con i quali avevo lavorato per tre mesi come fixer durante la rivoluzione della dignità (novembre 2013-febbraio 2014). Erano nel Donbas, cercavo di aiutarli con contatti e consigli, ma erano sicuramente più bravi di me, perché si trovavano sul posto. Che cosa pensavo di poter fare per la loro realtà nel Donbas dalla mia realtà della cucina di Kyjiv?

Non c’era stata una dichiarazione ufficiale di guerra, nessuno di quei discorsi alla radio o in televisione che di solito annunciano l’inizio di un conflitto. Nei successivi otto anni gli ucraini avrebbero dovuto imparare a convivere con il concetto di “guerra ibrida”, una guerra che non si fa soltanto con le armi, ma anche con l’informazione, con le sanzioni economiche, con le (fiacche) pressioni internazionali. Una guerra che, pur non presente fisicamente con le bombe a Kyjiv, Kharkiv, Leopoli, ha segnato tutti gli ucraini assieme agli sfollati dal Donbas che cercavano di inventarsi una realtà nuova, mai chiesta, mai attesa, con il budget statale annuale stanziato per l’esercito, con le notizie dal fronte sui morti e i feriti, con i soldati mutilati in città, che erano afflitti da nevrosi di guerra e che non dormivano più la notte.

Eravamo un Paese con il fronte aperto. Nelle città come Kyjiv, Odessa, Chernihiv si continuavano a costruire nuove case, a mandare i figli all’asilo e a scuola, ad aprire locali e nuove attività, ringraziando i soldati che stavano sul fronte all’Est. Nei notiziari, nelle nostre bacheche dei social continuavano ad apparire i necrologi dei soldati morti al fronte, con la candela accesa inserita con photoshop sulla foto. Loro, dietro quella candela, sapevano perfettamente per mano di chi erano morti, e invece nella realtà mondiale la loro morte e il loro sacrificio veniva chiamato “conflitto a bassa intensità”, “guerra dei separatisti”, “guerra civile”. In città come Berlino, Londra, Parigi, Milano, Barcellona i russi continuavano a investire soldi, a comprare beni di proprietà e a costruire piani per il futuro, dopo essersi accontentati dei (fiacchi) accordi di Minsk e Minsk-2, raccontati con la realtà alternativa da Sputnik e Russia Today.

In questi otto anni tutti noi ucraini ci siamo chiesti in continuazione come sarebbe andata a finire.

Avremmo rivisto il mare della Crimea, dove abbiamo imparato a nuotare? Avremmo rivisitato la città di Donec’k, dove la nazionale di calcio ha giocato le sue partite durante gli Europei del 2012? Avremmo avuto la verità una volta per tutte – non una verità parziale, distorta e pilotata, ma quella che c’è alla fine dei film, quando i cattivi sono stati puniti e i buoni hanno trionfato? In fondo, nella nostra realtà barattata con vari accordi, sapevamo perfettamente che quel fronte sarebbe arrivato a stringerci la gola a tutti.

Mi ricordo il momento preciso un cui è proseguita l’invasione della Russia in Ucraina, questa volta su larga scala. Ero nella mia cucina, appena sveglia e con il cellulare in mano che continuava a ricevere i messaggi «mi dispiace», con l’Italia che era presente dietro le finestre, non solo con il basilico sul davanzale, ma con il Monte Rosa abbastanza visibile nelle giornate con il cielo limpido. In questi otto anni c’è stata l’emigrazione, per scelta, una scelta che potrebbe aver salvato (o no) la mia vita. Sullo schermo della piccola televisione in cucina, però, il cielo di Kyjiv non era limpido. Dalle strade, che avrei riconosciuto a occhi chiusi, si innalzava il fumo dei bombardamenti, sempre in quelle strade c’erano file di macchine che cercavano di abbandonare la città e la loro vita. Era tutto lì, in diretta sullo schermo e con dei commenti poco sensibili da parte dei giornalisti italiani seduti sulle comode poltrone di uno studio ben illuminato. Avremmo avuto la verità, una volta per tutte? Quella di Donec’k e Luhans’k, di Kyjiv e Mariupol’ avrebbe coinciso con quella di Berlino, Parigi e Roma?

Da quella cucina ho chiamato i miei genitori, cercavo di aiutarli consigliando il posto più sicuro in casa e dicendo loro di ascoltare con attenzione gli ordini dei militari ucraini in caso di evacuazione sicura dalle zone che erano ormai in preda all’esercito russo. Ma loro erano sicuramente più bravi di me, perché si trovavano sul posto. Che cosa pensavo di poter fare per la loro realtà a nord di Kyjiv dalla mia realtà in una cucina italiana?

Questa volta, però, c’è stata una dichiarazione ufficiale di guerra, anche se l’hanno chiamata “operazione speciale”. Una realtà distorta, negata soprattutto alle tante vittime di questa dichiarazione.

Siamo un Paese con il fronte aperto, ovunque. Siamo? Posso attribuire alla mia realtà milanese quel “siamo”?

Sono un’ucraina che vive la guerra in diretta tramite i messaggi dei genitori e degli amici, tramite brandelli di immagini che arrivano dalle città assediate, tramite il canale Telegram dell’esercito ucraino, tramite l’applicazione delle sirene impostata sulla città di Kyjiv. Nella mia bacheca social continuano ad apparire i necrologi dei soldati, dei giornalisti, degli amici degli amici arruolatisi volontari e poi uccisi al fronte. Continuano a vivere nelle loro bacheche social, come tra le rovine della città eterna di Roma, con quelle foto sorridenti, con dichiarazioni di speranza nella nostra così vicina vittoria, e poi con un ultimo post dopo il quale arriva il silenzio come una riga che marchia la fine di tutto. Un intero esercito di utenti social mette una lacrimuccia o una faccina che abbraccia il cuoricino sotto la sua foto sorridente, sorridente per sempre. Un lutto condiviso online, un dolore, una morte in diretta. Prima dei video su YouTube sulle tragedie a Mariupol’ e a Severodonec’k partono le pubblicità delle crociere e delle creme solari per l’estate che sta bussando alle porte di qualche altra realtà. Una guida russa, con il microfono attaccato alla testa per avere le mani libere, fa il giro del teatro bombardato a Mariupol’ dagli stessi russi, costruendo qualche altro tipo di realtà per il mondo, un mondo nel quale ormai, oltre ai diversi canali di informazione, abbiamo anche fatti diversi.

Sul mio cellulare scatta la sirena antiaerea a Kyjiv. Immagino i miei amici che si spostano nei posti sicuri. Ci sono posti sicuri nell’Ucraina di oggi? Loro si spostano e io rimango ferma in una città europea che vive l’inizio dell’estate. Rimango ferma anche se nella mia testa seguo ogni loro passo, conosco tutte le porte di casa loro, conosco tutti gli ingressi nella metro vicina a casa loro, che funge da rifugio antiaereo. Non spengo mai il mio cellulare la notte, neanche la suoneria. Ma basta spegnerlo, basta non aprire i social, non guardare i notiziari, non leggere i giornali la mattina, basta circondarsi di crociere e di creme solari per crearsi una realtà alternativa. Per non essere quel “siamo”, ma qualcosa di diverso. Diverso, ma così tremendamente falso.