Giovedì 3 novembre a Torino apre Artissima, edizione numero 29, con un nuovo direttore – Luigi Fassi – una nuova identità visiva e qualche novità pure tra gli stand dell’Oval Lingotto, anche se la formula è all’incirca sempre la stessa e sarebbe inutile cambiarla visto che funziona, più a livello di buona reputazione che di transazioni economiche. Gli esperti dicono che Artissima sia la più “cool” tra le fiere contemporanee, sperimentale e internazionalista; già da diversi anni ha dettato la linea, a cominciare dai direttori che si sono succeduti, tutti critici d’arte e curatori ed è ovvio che pensino più a un criterio espositivo tipo mostra oltre alla fiera vera e propria.
Allo stile Artissima, bene o male, si sono dovute adeguare le tante altre presenti sul nostro territorio, almeno le quattro principali concentrate tutte a nord. Così anche il Miart (primi di aprile) cerca di somigliarle nell’impostazione internazionalista, Art Verona (ottobre) è cresciuta sul versante arte giovane mentre Arte Fiera Bologna, la decana, un appuntamento tradizionale paragonabile al Festival di Sanremo (fine gennaio) è rimasta al palo, travolta da una crisi identitaria perché non accontentandosi di essere manifestazione locale e generalista ha perso il suo spunto originale di mercato ricco e un po’ generico.
Rispetto ai competitor europei l’Italia non ha mai voluto investire su una sola grande fiera, come accade invece in Svizzera, Francia, Spagna, Inghilterra, ma ha preferito la parcellizzazione, logica conseguenza di un paese senza centro, diviso, campanilista e sempre in concorrenza. È la nostra caratteristica, inutile pensare di fare altrimenti, però è normale chiedersi come il mercato riesca ad assorbire quattro manifestazioni in un anno (senza considerare le minori, tantissime, o quelle che forse cresceranno come Arte in Nuvola a Roma, programmata a fine novembre).
Artissima, peraltro, non ha solo imposto uno sguardo supercontemporaneo, non ha solo introdotto la figura del direttore-curatore al posto del manager o del ragioniere perché sognare e più importante che far di conto, ma ha contribuito alla trasformazione della fiera in festival d’arte a cui partecipano tutti gli attori in scena, dai grandi musei alle gallerie, dagli spazi indipendenti alle cosiddette fiere alternative che assorbono altre centinaia di espositori e a Torino ce ne sono di interessanti (Flashback che mescola antiquariato e moderno, The Others dove trovi la sperimentazione in prima battuta) e altre francamente da dimenticare. Per quattro giorni l’arte vive h 24, come se dice in gergo, e se il fisico ti regge c’è anche l’appuntamento, questo sì molto sentito, con Club To Club il festival internazionale di musica elettronica che attira pubblico da ogni dove e fa sempre il tutto esaurito.
Anche le altre città italiane che ospitano fiere d’arte si sono dovute uniformare a questo modello di offerta ipertrofica che funziona indipendentemente da ciò che propone, funziona perché hotel e ristoranti sono pieni, i taxi non si trovano e il pubblico sembra davvero felice a muoversi in massa da un’inaugurazione all’altra e persino Torino, fredda e riservata, appare più ospitale verso questa fauna alternativa che dipinge a colori ma veste di nero.
Sopravvissute ai durissimi anni del Covid, quando il sistema ha subito una grave battuta d’arresto rischiando il tracollo e in tanti prevedevano che le più deboli non avrebbero resistito, le fiere sembrano invece ripartite benino, finalmente senza mascherine, a riprendere lo stesso conosciuto rituale che non prevede particolari scossoni in quanto una fiera è una fiera, si viene per vendere e comprare, fine della storia. Chi tanti anni fa inventò questa formula dell’intrattenimento culturale aveva perfettamente capito che esiste un altro pubblico dell’arte, che magari non spende in opere ma è equiparabile a un turista colto e snob cui piace mettere mano al portafoglio per divertirsi.
Ecco quindi che Torino si prepara a un’edizione sulla carta buona, oltre che finalmente liberata, con alcune mostre che promettono molto bene: Arthur Jafa alle OGR, artista afroamericano tra quelli che al mondo oggi contano di più, l’israeliana Michal Rovner alla Fondazione Merz, la personale del pittore rumeno Victor Man alla Fondazione Sandretto, Olafur Eliasson al Castello di Rivoli. Tra le tante proposte nelle gallerie ci sono le fotografie di Oliviero Toscani da Mazzoleni, i dipinti di Salvo da Norma Mangione, il concettuale di Fatma Bucak da Peola Simondi. Sabato sera 5 novembre saranno aperte fino a tarda notte, come da tradizione, il tempo sarà ancora mite e tutto si concluderà domenica 6 ma a quel punto saremo già allo Stadium per Juventus – Inter, un’altra storia insomma.