In tempi di gender fluid, non dovrebbe sorprendere più di tanto che il problema si riproponga anche per alcuni degli oggetti che sono stati e in parte ancora sono più cari all’immaginario dell’uomo moderno (pardon: dell’uomo e della donna), tanto da essere quasi antropomorfizzati: le autovetture. Quella che una volta credevamo di conoscere come la Maserati scopriamo oggi che è forse invece il Maserati, la Bmw ci si presenta come il Bmw, la Mercedes come il Mercedes, e così via transitando. Che cosa succede?
In realtà la questione ha radici molto più antiche dell’odierna sensibilità gender. Alla fine dell’Ottocento il sesso dei veicoli a motore era dibattuto come quello degli angeli nella Bisanzio assediata dagli Ottomani: le automobili o gli automobili? Per quanto ci possa oggi suonare improbabile, la seconda forma era la più usata agli albori. “Automobile” corrisponde all’omografo termine francese, che era in origine un aggettivo accompagnato alla parola voiture: ossia vettura che si muove da sola (autós), in contrapposizione alle voitures aux chevaux. Per questo, quando l’aggettivo decise a sua volta di fare da solo, diventando un sostantivo (perlomeno in Italia; in Francia è stato piuttosto il sostantivo a fare a meno dell’aggettivo, infatti ancora oggi si parla più comunemente di voitures che di automobiles), il genere femminile si prestava come il più naturale, attestato in forma scritta nella nostra lingua fin dal 1898.
Già al volgere del secolo, tuttavia, il dubbio si era fatto “strada” (of course) e il medico-scrittore-lessicografo Alfredo Panzini ne dava conto nel Dizionario moderno edito da Hoepli nel 1905, testimoniando che “il genere maschile tende a prevalere”. Nelle residue effervescenze della Belle Époque i giornali celebravano le temerarie gare degli automobili, e nel Manifesto del Futurismo, tradotto per la rivista Poesia dopo essere apparso in francese su Le Figaro il 20 febbraio 1909 (dove si parlava di “automobile rugissante”, al femminile), Marinetti si esaltava al pensiero di “un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia”.
Spazzati via dalla Grande guerra gli arrembanti fervori positivistici, però, nella poesia marinettiana All’automobile da corsa (1921), tardiva versione italiana di À mon Pégase (1908), l’automobile “ivre d’espace” era diventata “ebbrrra di spazio”. Il clima era mutato, ormai dettava legge la sensualità estetizzante di D’Annunzio, che in una lettera del 18 febbraio 1920 al senatore Agnelli (pubblicata sul Corriere della Sera il 27 ottobre 1923), per ringraziarlo della Fiat Tipo 4 ricevuta in dono con cui era trionfalmente entrato in Fiume, annunciava che “la questione del sesso” era infine risolta: “L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Ma, per contro, delle donne ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza”. (“L’Automobile è femmina” è stato battezzato il museo che dal 2017 ospita al Vittoriale le vetture predilette dal Vate).
Anche in Italia veniva così sancito quel binomio donne e motori – prima parte del famigerato proverbio vetero maschilista che si chiude in rima con “gioie e dolori” – che per tutto il Novecento e oltre ha alimentato il duplice desiderio di possesso dei signori uomini, materializzandosi nell’immagine provocante della bellona di turno sdraiata sulla vettura fiammante. Per questo sono trattate al femminile non solo, com’è ovvio, le tante auto con un nome di donna – dalle gloriose Fulvia e Flavia della Lancia all’economica Dyane della Citroën, alle intramontabili Giulia e Giulietta dell’Alfa, alla Lotus Elise, alla Renault Clio – o comunque con un nome declinato al femminile, come la Brava della Fiat; ma anche (per restare nello stesso marchio) la Bravo, la Tipo, la Punto, la Ritmo, la Panda, di per sé nomi maschili che però prendono il genere dell’iperonimo “automobile” (o più familiarmente “macchina”) che tutte le sussume – con almeno una importante, “leggendaria” eccezione: il Maggiolino.
Senonché, al volgere di un altro secolo, la caratterizzazione di genere che sembrava così ben definita ha cominciato a fluidificarsi, generando una nuova ambiguità: non più in riferimento all’iperonimo, ma al nome proprio dei diversi marchi e modelli. Se in casa Fiat rivendica orgogliosamente le proprie prerogative femminili una vettura, la Cinquecento, che ha fatto la storia, nello stesso Gruppo, in casa Alfa, le cose si complicano: perché ad esempio la Stelvio – nome maschile di un valico alpino, noto agli appassionati del Giro d’Italia – negli opuscoli illustrativi viene nominata tanto al femminile quanto al maschile. La ragione, si potrebbe argomentare, risiede nel fatto che il/la Stelvio è un Suv, ossia Sport Utility Vehicle, e in questi casi il genere dipende dalla testa dell’acronimo, ossia vehicle, che nella forma italiana è maschile. Ma perché, allora, l’Alfa Tonale, altro Suv, è regolarmente attestato al femminile? Mentre – stesso Gruppo, altro marchio – due popolari Suv della Jeep, la Renegade e la Compass, vengono con non minore frequenza citati come il Renegade e il Compass. Vetture bisex? O magari un caso di degendering? Un segno dei tempi? Ci nascondono qualcosa?
Grande è la confusione sotto il cielo (linguistico) dei motori. Restando nell’ambito dei fuoristrada, sono risolutamente maschili il Nissan Qashqai e il Toyota Land Cruiser, mentre la Tucson, ibrido della Hyundai, è ibrido anche dal punto di vista grammaticale perché si trova concordato regolarmente al femminile. Incerti sul proprio genere sono invece, in casa Volkswagen, il/la T-Roc e il/la Tiguan, che concordano indifferentemente al maschile e al femminile, come pure, in casa Renault, l’Espace (fatto due volte degno di nota, in quanto la parola espace, spazio, è maschile in italiano come in francese) e il/la Kangoo – ma, si sa, i canguri sono animali strani.
Sul sito dell’Accademia della Crusca Anna M. Thornton (autrice del saggio L’assegnazione del genere ai prestiti inglesi in italiano, in Italiano e inglese a confronto, a cura di Anna-Vera Sullam Calimani, ed. Cesati 2003) sostiene che chi nomina questi automezzi al maschile implicitamente li classifica come Sport Utility Vehicles, mentre parlarne al femminile significa classificarli come automobili. Una spiegazione plausibile, che però lascia qualche perplessità su quei Suv univocamente ascritti a uno solo dei due generi, quasi che nel loro caso tutti i parlanti fossero d’accordo su come classificarli. In effetti sono soprattutto i capricci dell’uso a determinare il sesso dei veicoli, e spesso a invertirlo: non solo per quanto riguarda i Suv ma anche per le altre automobili, in particolare quelle di alcuni marchi prestigiosi, il cui prestigio è tale da sopravanzare il nome del modello.
È quanto accade alla Bmw, che in seguito a robuste iniezioni di testosterone linguistico mostra un’insopprimibile tendenza a mascolinizzarsi per diventare il Bmw, alla Porsche che diventa il Porsche (improbabile che c’entri l’influsso del tedesco “der Porsche”), addirittura alla Mercedes (nome della figlia prediletta di Emil Jellinek, l’imprenditore austriaco che all’inizio del Novecento depositò il marchio) che ha quasi compiuto la transizione per rigenerarsi come il Mercedes, nonché alle nostre Maserati e Ferrari (nella variante vezzeggiativa “il Ferrarino”). Il che, alla fine, fa sorgere un terribile sospetto: che questo fenomeno della rimaschilizzazione sia funzionale a connotare qualitativamente ed emotivamente le automobili ritenute per varie ragioni più degne di considerazione. Più degne di considerazione e quindi da trattare al maschile? Oibò, un sedimento di mentalità fallocratica finora sfuggito alle menadi della wokeness femminista. Anche per parlare delle/gli automobili dovremmo ricorrere allo schwa?