Il calcio non è solo un business multimiliardario ma anche una questione di fede. Quando incantava il mondo in campo, l’ex stella del Milan e del Real Madrid Ricardo Kaká non dimenticava di ringraziare il Signore dopo ogni goal. Da buon cristiano pentecostale della chiesa Renascer, l’Atleta di Cristo sfoggiava sotto la maglia ufficiale una t-shirt bianca con su scritto «I belong to Jesus», «Dio è fedele» e «Gesù ti ama».
Come lui, decine di altri calciatori sudamericani che per anni hanno militato nei principali campionati europei, compresa la nostra Serie A, non hanno fatto mistero della propria fede cristiana. Alcuni in maniera sobria, altri mettendo in mostra tutto il loro fervore. Come l’asso Neymar, brasiliano anche lui e oggi in forza al Paris Saint Germain, che nel 2015, ai tempi in cui formava un trio d’attacco da urlo con Messi e Suarez al Barcellona, per festeggiare la vittoria della finale di Champions League contro la Juventus si presentò sul podio con una bandana con su scritto «100% Jesus».
Un’uscita che fece discutere non poco, spingendo addirittura la Fifa, la Federazione internazionale di calcio, a censurare le immagini della sua esultanza in quanto avrebbero potuto urtare la sensibilità di atleti di altre confessioni. Perché in teoria, ma solo in teoria, il calcio è uno sport ateo.
La verità, però, è ben altra. I credi religiosi, infatti, si sono ormai posizionati da tempo in pianta stabile sui terreni di gioco. E se fino a qualche anno fa si trattava per lo più di un affare tutto cristiano, con il proverbiale segno della croce ad accompagnare puntualmente il fischio d’inizio di ogni partita, oggi anche i calciatori musulmani non fanno più mistero della loro fede. E l’aumento della loro esposizione mediatica sta andando di pari passo con la crescita del peso – politico e soprattutto economico – di sceicchi e businessman del Golfo Persico e dell’Asia sul calcio internazionale.
La Premier League, la lega più ricca e spettacolare del pianeta, non poteva che fare da apripista a questa tendenza. Negli ultimi anni calciatori del calibro di Mohamed Salah, stella del Liverpool, Sadio Mané, passato dai Reds ai tedeschi del Bayern Monaco, e Paul Pogba, tornato alla Juventus dopo un’esperienza poco esaltante al Manchester United, hanno trascinato nel rettangolo verde la loro fede in Allah. Il resto lo hanno fatto i loro profili social, seguiti in tutto il mondo da decine di milioni di follower. […]
E poi c’è il Dio denaro, lo stesso che nel 2010 ha indicato la strada che avrebbe condotto al piccolo ma agguerrito emirato del Qatar per l’organizzazione dei Mondiali di calcio del 2022. Una svolta storica e che di fatto, da allora, ha proiettato il mondo del calcio che conta – quello europeo per intenderci – in una nuova fase. […]
Da questo momento in avanti i Paesi del Golfo si impossessano sempre di più del mondo del calcio, facendone uno strumento di soft power. […] Se il cambio di passo del Qatar è apparso evidente specie dopo l’assegnazione dei Mondiali del 2022, e con la prima storica Coppa d’Asia conquistata nel 2019 in finale contro il Giappone grazie allo scouting forsennato della sua Aspire Academy e a una massiccia campagna di nazionalizzazione di talenti stranieri, adesso anche l’Arabia Saudita è intenzionata a salire ulteriormente di livello. […]
C’è chi nell’analizzare tutto ciò parla di sport washing, ovvero del calcio utilizzato come strumento di soft power da parte delle potenze del Golfo. E in questa dinamica l’Europa, che insieme al Sud America è la patria del calcio, si trova a dover gestire non semplici equilibrismi: tra la fede incondizionata in uno sport che nel Vecchio continente come in America Latina è un elemento portante della cultura e della società, la necessità di fare cassa e aprirsi a nuovi mercati per non «rompere il giocattolo» e, sullo sfondo, la questione della tutela dei diritti umani alla luce delle denunce di Amnesty International, Human Rights Watch e altre ong per gli oltre 6.500 lavoratori – in larga maggioranza provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka – morti nei cantieri degli stadi costruiti in questi anni per i Mondiali in Qatar. […]
Al centro di tutte queste dinamiche restano, fortunatamente, un rettangolo di gioco, un pallone, 22 calciatori e 90 minuti in cui provare a fare un goal in più dell’avversario.
«Pallone entra quando Dio vuole» amava dire il maestro del calcio Vujadin Boškov. E aveva ragione. Perché il calcio, in fondo, è sì una questione di fede, ma ancor prima è un gioco. Il più bello del mondo.
Da “Il centravanti e la Mecca”, Paesi edizioni, 112 pagine, 12 euro