Di Kherson ho solo una foto e neanche mia, quella dei nonni in piedi sul lungomare di Hola prystan’, la Baia nuda, in vacanza, una foto scattata forse in autunno. La nonna aveva scarpe pesanti, un tailleur e i capelli appena fatti scompigliati dal vento. Il nonno era elegante, come sempre, nel suo abito blu.
Non so niente di quella vacanza, per quale motivo ci sono andati né quando. Sono ricordi che non verranno mai più recuperati, vivranno con i loro brandelli ancora nella memoria dei parenti, quelli rimasti. È una foto felice, a colori, di quelle posate davanti ai fotografi che si piazzavano nei pressi di qualche monumento importante delle grandi città.
Scattavano e spedivano la foto a casa per posta. Anche i miei genitori hanno foto di questo tipo da vari posti dell’ex Unione Sovietica. Mi sono sempre chiesta come facevano i fotografi, dopo averle sviluppate, a spedire le foto agli indirizzi giusti, che appunti prendevano nei loro taccuini: i capelli mossi dal vento? Una coppia felice?
Non sono mai stata a Kherson, però sicuramente ci sarò passata con il treno andando e tornando dalla Crimea, dal mare, dal nostro mare, un viaggio che durava un eternità.
Non so perché in testa ho l’immagine del treno che si ferma a Kherson all’alba, rossa e struggente, che accarezza i binari con le sue luci ancora giovani e timide. Ci siamo fermati a Kherson quella volta a luglio del 1999 tornando dalla Crimea, mio padre e io, per il funerale di mio nonno, quello nella foto scattata a Kherson. Quella volta nessuno di noi volevamo arrivare in tempo, né io a 12 anni, né mio padre ai suoi 38. Avevamo paura tutti e due, perché era la prima morte così vicina per entrambi.
Alla fine tutti i treni e tutti gli autobus sono arrivati in tempo, e noi no. Ricordo tutti gli specchi in casa ricoperti dai teli. Gli ucraini credono che un morto non si deve guardare allo specchio per non rispecchiare la morte e non richiamarla in casa. Ricordo che ho pianto e che non avevo paura. Non poteva fare paura una persona che ti voleva bene, anche se non c’era più.
Non sono mai stata a Kherson e non sono stata mai a Kharkiv, a Donets’k, a Lyman, a Lysychans’k. Potrei strapparmi una promessa di andare a visitare tutte quelle città, quando saranno liberate, alcune lo sono già.
Potrei anche farlo, anche perché bisogna trovare appigli nel futuro ai quali aggrapparsi per andare avanti, nonostante la morte sia sempre così vicina. Uno di questi appigli potrebbe essere visitare tutte le città ucraine dove non sono stata. Ma quando ci andrò, non troverò più quelle città così com’erano una volta. Saranno città diverse, ricostruite, nuove, con i lividi sulle facciate e le cicatrici sui fianchi, ma non saranno più le città che erano prima del 2014 e 2022.
Quando torneranno gli sfollati? In quanti torneranno? Quante fosse comuni verranno ancora trovate? Quanti abitanti locali mancheranno all’appello della liberazione? La natura quando rimarginerà le ferite delle terre solcate dai carri armati, dei campi bruciati, dei crateri creati dai missili?
Ci saranno nuovi monumenti ai caduti della guerra russo-ucraina, davanti ai quali i fotografi non si piazzeranno con le macchine analogiche e non servirà sviluppare le foto. Però i ricordi non saranno più a brandelli, perché viviamo in un’epoca digitale.
Ne usciremo tutti segnati, marcati, invecchiati, addolorati, ma liberi come lo è oggi Kherson e la sua alba, rossa e struggente.