Il tema della disparità di genere ritorna tra i banchi del Parlamento Europeo. A Strasburgo è stata approvata la direttiva che punta a riportare l’attenzione sulla governance delle grandi aziende e, in particolare, sulla composizione della classe manageriale. «Women on Boards» è espressione della volontà degli e delle europarlamentari di mitigare gli effetti della disparità di genere partendo dall’alto, dalle stanze dei bottoni, dagli organi decisionali e amministrativi delle società europee.
Come funziona
L’intesa, trovata lo scorso 17 giugno, prevede un iter chiaro e trasparente nell’assunzione e l’allargamento della platea di donne coinvolte nei consigli d’amministrazione, che dovranno ricoprire almeno il quaranta per cento delle cariche non esecutive o il trenta per cento delle cariche complessive (tra esecutive e non esecutive).
Non un semplice invito alla scelta più giusta a livello di parità di genere, ma una netta presa di posizione che si traduce in un obiettivo tangibile. La quota prevista dalla direttiva dovrà infatti essere raggiunta entro il 30 giugno 2026, un anno in anticipo rispetto a quanto inizialmente proposto dal Consiglio, coinvolgendo le società quotate in borsa con almeno duecentocinquanta dipendenti.
Una prospettiva ambiziosa che si intende realizzare attraverso la creazione di un organo giudiziario di controllo delle aziende d’interesse e la messa in atto di sanzioni dissuasive per le società che non aderiscono a procedure di nomina trasparenti e chiare, in conformità alla direttiva.
La regolamentazione e l’imposizione dei criteri alla base delle nomine nei CdA rappresenta difatti un punto di rottura rispetto agli interventi, anche nazionali, previsti finora. «La trasparenza è uno dei maggiori traguardi raggiunti. I processi di selezione dovranno fondarsi su criteri chiari e predeterminati, con questo accordo solo i candidati migliori saranno selezionati, migliorando la qualità dei consigli d’amministrazione» afferma Evelyn Regner, vicepresidente del parlamento europeo.
Con Women on Boards a parità di curriculum e competenze sarà il candidato con il genere meno rappresentato ad avere la precedenza, mentre le società quotate dovranno anche provvedere, ogni anno, alla pubblicazione di dati riguardanti la composizione del board e dei conseguenti obiettivi da raggiungere in termini di diversity. Nel caso in cui la direttiva fosse violata, gli organi preposti potranno non solo multare la società ma anche annullare la costituzione del board ritenuto inadempiente.
Un percorso decennale
Con i lavori avviati a Strasburgo, la direttiva raggiunge il suo capitolo conclusivo dopo uno stallo di dieci anni. Presentata nel suo stato di crisalide nel 2012, negli anni successivi la discussione non è mai stata completamente archiviata, sebbene mancasse una svolta risolutiva alla questione. Nel 2013, per esempio, durante la presidenza lituana le delegazioni hanno optato per un approccio soft, di tipo volontaristico, lasciando ai singoli Stati membri la possibilità di scegliere l’orientamento da seguire.
Presidenza dopo presidenza, anno dopo anno, si è probabilmente compreso che temi quanto la parità e l’equilibrio di genere non siano questioni da delegare all’opinione dei singoli bensì materia che necessita di un grado di risolutezza che non contempla indecisioni. La presenza ancora esigua delle donne ai vertici delle società, di organizzazioni, governi e nei corridoi del potere è sintomo di un problema sistemico, una stortura culturale che ingabbia il potere in ruoli stereotipati e attori anacronistici, trasformando il genere di appartenenza nell’unità sulla quale misurare le proprie aspirazioni future, in blocchi di partenza più o meno competitivi.
Unione a due velocità
Lo dimostrano i dati disomogenei all’interno dell’Unione: al primo posto per numero di donne nei CdA c’è la Francia con il quarantacinque per cento, all’ultimo Cipro, con l’otto per cento di presenza femminile. L’Italia spicca per il quarantuno per cento di donne nei CdA nel 2021 come segnala Consob in un rapporto dello stesso anno. I dati non solo confermano il trend ma ci offrono anche una panoramica incoraggiante; nel 2008 la presenza femminile nei CdA delle società italiane quotate in borsa era del 6,2 per cento, abbassandosi ulteriormente negli organi di amministrazione (5,9 per cento).
Un’evoluzione ricollegabile senza dubbio anche alla legge Golfo Mosca del 2011 che, sebbene non abbia prodotto in toto gli effetti auspicati, ha avuto il merito di regolamentare il sistema di quotazione di genere.
Un debutto, quello delle quote rosa, che non è riuscito a permeare e convincere una cornice troppo statica e pregna di pregiudizi: in un report del 2020 sul sistema di quotazione di genere prodotto dall’osservatorio Cerved-Fondazione Bellisario e Inps emerge che la maggior parte delle società interessate si sono limitate a raggiungere le percentuali stabilite per legge (del venti per cento prima, del trenta per cento poi) senza superarle, mentre per le aziende non soggette all’obbligo non si osserva nessun impatto positivo (solo il diciassette per cento di donne nei CdA nel 2019).
A ciò si aggiunge il fatto che, anche quando incluse nei board delle aziende più rilevanti, raramente le donne ricoprono ruoli esecutivi quindi di gestione e responsabilità. Secondo il “Gender Diversity Index of Women on Boards and in Corporate Leadership” prodotto da Ewob la percentuale di donne Amministratrici delegate nel 2021 è scesa al tre per cento, nel 2020 era del quattro per cento.
Una svolta storica
La svolta che le istituzioni europee hanno deciso di imprimere sul mercato del lavoro è sicuramente epocale, simbolo di una sensibilità orientata alla giustizia sociale e occupazionale che ha investito numerosi settori, tra cui quello finanziario. Le società quotate in borsa e quelle attive internazionalmente se ne sono già accorte, ora più che mai l’approccio alla diversity e alle tematiche di genere sta diventando l’ago della bilancia che orienta la valutazione di un’azienda, le potenziali collaborazioni e rapporti con i terzi.
Traduzione di questa tendenza sono, per esempio, gli Esg (environmental, social, governance) criteri di analisi e cernita usati sempre più spesso da investitori e istituzioni come veri e propri strumenti finanziari, che determinano l’affidabilità e sostenibilità di un possibile partner. Non più nota a margine: l’uguaglianza di genere, quella concreta, sarà misurabile in dati e numeri, in quelli che definiranno la resilienza e il livello d’avanguardia di un’azienda, della società. Dopo l’entrata in vigore della direttiva, gli Stati membri avranno due anni per recepire la norma. In prospettiva, altri due anni per ridisegnare le sproporzioni, per ripensare ai passi da compiere per rompere il soffitto di cristallo.