Sostenere che “in guerra tutte le parti fanno propaganda e quindi si equivalgono nel loro rapporto con la verità” è un insulto all’intelligenza di chi ascolta oltre che a qualunque forma di etica. Durante la Seconda guerra mondiale il dottor Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich, era noto per essere un vero e proprio artista della propaganda. Al suo servizio lavoravano artisti, commediografi, sceneggiatori e registi del calibro di Leni Riefenstahl, l’autrice di Olympia, il documentario che celebra le Olimpiadi di Berlino del 1936. Sul fronte alleato, allo stesso modo, le migliori capacità creative e comunicative erano state mobilitate nello sforzo bellico.
Negli Stati Uniti alcuni registi di Hollywood, supervisionati dal grande Frank Capra, parteciparono alla realizzazione di una serie di sette documentari intitolati Why We Fight; nel 1943 il primo della serie (Prelude to War, diretto dallo stesso Frank Capra e da Anatole Litvak) vincerà il premio Oscar come miglior documentario (ex equo con altri, tra cui The Battle of Midway, diretto da John Huston). Propaganda quella nazista di Goebbels, propaganda quella dei film di Capra e Huston: ma che senso ha metterla sullo stesso piano? Lo scopo comune è diffondere contenuti, propagandare valori: ma sono proprio i contenuti e i valori che quella propaganda veicola che fanno la differenza. Non capirlo, o fingere di non capirlo, significa negare che la democrazia politica ha con la verità un rapporto diverso rispetto a quello tipico degli autoritarismi e dei totalitarismi.
Per questi ultimi la regola è sempre quella descritta nella Fattoria degli animali di Orwell in forma di apologo e in 1984 in forma di dramma. “Tutti gli animali sono uguali. Ma i maiali sono più uguali degli altri” è l’esito della continua manipolazione delle verità che i maiali propalano agli altri animali, quando il loro gioco viene scoperto, ancorché tardi. La “neolingua” e il “bispensiero” – la costruzione di parole che rendono più facile occultare la realtà e alterare la loro relazione con la verità, e la pretesa di prendere come vera tanto un’affermazione quanto il suo contrario a seconda dei desideri del partito – rappresentano bene il modo in cui l’apparato propagandistico di Putin vende la sua verità.
Nei sistemi autoritari e totalitari, d’altronde, è la distinzione stessa tra comunicazione e propaganda che diventa estremamente sottile, per le ragioni cui alludevo prima: la mancanza di controlli indipendenti, di contrappesi politici, di verifiche autonome sugli eventi e sulle relazioni tra gli eventi mortifica e svuota la società civile della capacità di giudizio critico autonomo nell’assenza di fonti alternative di informazione.
Infine, ricordo un ulteriore elemento cruciale di differenza tra Russia e Ucraina: la leadership. Nel corso della guerra la natura dispotica e i tratti intolleranti della personalità e dello stile di conduzione di Putin sono emersi con evidenza, insieme alla sua disinvolta capacità di mentire e alla grossolanità di alcuni errori di strategia.
Dall’altro lato, la leadership di Volodymyr Zelensky si è ingigantita settimana dopo settimana, mese dopo mese. A cominciare da quando, invece di accettare l’offerta occidentale di un’esfiltrazione sicura, ha deciso di rimanere nel paese, infondendo agli uomini e alle donne ucraini una straordinaria iniezione di coraggio e determinazione. È stato il comportamento del presidente che ha contribuito a far sì che l’identità della nuova Ucraina – in grado di accogliere ucrainofoni e russofoni – potesse mostrarsi e rafforzarsi.
Del resto, la sua stessa elezione era avvenuta nel segno del superamento delle divisioni e delle cicatrici che Euromaidan aveva polarizzato ed esasperato nel paese. L’idea che Zelensky fosse una sorta di Beppe Grillo o di Coluche al bortsch era una semplificazione dei media occidentali, spazzata via dalla condotta tenuta in guerra dal presidente. Zelensky ci ha ricordato che le circostanze possono trasformare dei guitti in statisti, quando invece in altri casi e ad altre latitudini politici di professione possono comportarsi come buffoni.
Ma se la volontà di combattere è un fattore forse ancora più decisivo rispetto alle capacità materiali, allora la domanda che dovremmo farci è questa: siamo sicuri che le società occidentali, quelle europee in particolare, sarebbero ancora capaci di affrontare una prova come la guerra con altrettanta forza di volontà? Parlo evidentemente di una guerra difensiva. Che cosa è successo di quel “terribile amore per la guerra” di cui parla James Hillman, o di quel tratto distintivo della cultura occidentale al quale fa riferimento Victor Davis Hanson?
Non è che la tabuizzazione della guerra tipica della “società posteroica” ha finito con l’impedire di costituire un vallo verso la barbarie? Che a forza di pensare, sbagliando, che le “invasioni barbariche” del XXI secolo fossero quelle dei disperati che arrivano – e spesso muoiono – sui gommoni dal Sud del Mediterraneo ci ritroviamo ora indifesi di fronte al vero irrompere della barbarie dall’Est dell’Europa, a opera non di popoli, ma di tiranni e despoti che scagliano contro il nostro limes sguarnito la propria soldataglia?
Il posto della guerra, Vittorio Emanuele Parsi, Bompiani, 224 pagine, 17 euro