Dicevano che Kyjiv sarebbe caduta in tre giorni, è ancora lì. L’Ucraina ha dimostrato a Vladimir Putin e agli altri tiranni che non puoi restare impunito quando hai addosso puntati gli occhi del mondo. Le fotografie dal Paese, quelle delle atrocità degli occupanti come quelle festanti dei villaggi liberati, documentate dai giornalisti o da semplici cittadini, hanno disintegrato come un Javelin la propaganda corazzata russa. Sproloquiavamo di «info war»: il Cremlino l’ha persa il primo giorno, come perderà la guerra. La giornalista ucraina Tanya Kozyreva racconta a Linkiesta i suoi mesi a coprire il conflitto.
Finalista al Pulitzer nel 2021 quando lavorava a BuzzFeed e menzione speciale quest’anno come i suoi colleghi ucraini, Kozyreva ha ricevuto una Nieman Fellowship ad Harvard. Negli Stati Uniti, le elezioni di metà mandato hanno fatto temere che si incrinasse la linea pro Ucraina, ma la «marea rossa» agognata dai trumpiani non c’è stata. I diritti da difendere, su tutti quello di abortire, hanno mobilitato l’elettorato dem. Oltre alla democrazia di cui ha parlato Barack Obama, una visione divisiva dell’economia ha portato Kyjiv sulle schede.
«Molti repubblicani incolpano Joe Biden per l’inflazione, ma non capiscono chi l’ha causata e perché – spiega la giornalista –. Non gli interessa chi ha cominciato la guerra in Ucraina e attaccano il presidente per il supporto a Kyjiv. La politica americana è molto polarizzata, alle Midterm c’è stato un testa a testa. Molti erano preoccupati, ma il Dipartimento di Stato ha rassicurato che il sostegno all’Ucraina resterà bilaterale, anche se numerosi repubblicani l’hanno strumentalizzato».
Come in Europa, per non citare l’Italia delle interviste esclusive a Lavrov e delle dissonanze cognitive dei finti pacifisti, anche in America c’è chi ha speculato per mistificare una questione che non può essere più semplice di così: ci sono un invasore e un invaso. Perché? «L’influenza del denaro russo è enorme».
La settimana scorsa è stato confermato che i canali diplomatici tra Washington e il Cremlino sono rimasti aperti. L’amministrazione Biden, in forma privata, ha fatto pressioni su Volodymyr Zelensky perché si mostri disponibile a una trattativa. «Non dipende dall’Ucraina quando i negoziati di pace cominceranno, ma alla Russia – ricorda Kozyreva –. Non dovete convincere gli ucraini, sta a Putin decidere quando vorrà trattare, ma non mi sembra molto proattivo, non offre incontri a Zelensky né ritira le sue truppe, almeno non completamente».
Mantenere in vita il dialogo, però, può avere una valenza. «I contatti diplomatici si tagliano solo in situazioni estreme, come una guerra. Come hanno fatto i russi, quando hanno lasciato le ambasciate in Ucraina. Per uno Stato non coinvolto nel conflitto, penso che mantenere relazioni diplomatiche possa servire a cercare una soluzione. Anche perché è molto difficile capire quali siano le vere richieste della Russia. Quelle di prima della guerra erano false. Volevano il ritiro delle forze Nato dall’Est Europa, ma come si faceva a chiedere all’Ucraina qualcosa che non poteva decidere lei? In quel periodo, un ingresso della Nato non era neppure all’ordine del giorno».
Nel frattempo, è arrivata la liberazione di Kherson. Secondo la giornalista, va letta con cautela: «Una settimana fa Putin ha menzionato specificamente che la popolazione della provincia doveva andarsene perché sarebbe diventata “una delle zone di conflitto più pericolose”. Ora l’intelligence americana svela che prepara i sottomarini con testate nucleari a un test. Putin non parla mai di civili, ma in base alle leggi internazionali vanno avvisati quando rischiano di essere coinvolti. È solo una mia teoria: spero che la Russia non usi mai la bomba atomica o qualsiasi altra arma vietata, anche chimica, ma ho trovato preoccupante che la notizia dei sommergibili uscisse negli stessi giorni della ritirata da Kherson».
Da gennaio ad agosto Kozyreva ha lavorato come giornalista nel suo Paese. Ha cominciato a gennaio, prima dell’invasione, perché in autunno c’era stato un leak dei servizi segreti americani. Andava nelle regioni di confine a chiedere agli abitanti se fossero preoccupati, se il governo locale li avesse avvisati. «La gente non era pronta, non concepiva nemmeno l’idea di una guerra. È stato orribile perché, quand’è cominciata, molti avevano sottovalutato la minaccia, come molti politici e lo stesso Zelensky. La gente era disorientata, non sapeva cosa fare o dove andare. Completamente persa. Ricordo gli scaffali vuoti nei negozi, quei primi giorni a Kyjiv. I media internazionali dicevano che avremmo resistito solo per tre giorni, ma dopo nove mesi siamo ancora qui».
Poi Leopoli, con milioni di persone in coda verso la frontiera, per fuggire in Europa, e il traffico immenso, giù fino a Dnipro, lungo una nazione intera. La tappa successiva è Odessa. Il dramma di un orfanotrofio che non può evacuare i suoi ospiti disabili. Non ci sono più autobus, figuriamoci le ambulanze. A Mykolaïv ha visto i crateri delle esplosioni nella periferia della città. E le pile di cadaveri, non tutti soldati. «La madre di uno di loro si è presentata per identificare il figlio e, quando lo ha trovato, ha cominciato a urlare».
La fuga in massa da Dnipro. A Mariupol’ i bombardamenti cominciano mentre fanno interviste. A Zaporizhia incontra la storia più dura. «In un ospedale pediatrico, ho visto con i miei occhi i bambini che avevano sofferto per la guerra. Mi ha colpito una ragazzina. Milena. Stava sfollando con la sua famiglia, a un checkpoint i russi hanno iniziato a sparare. Un proiettile l’ha colpita sulla mandibola. Era in condizioni terribili. Mentre eravamo lì, penso che per un secondo sia finito l’effetto dei sedativi. Ha aperto gli occhi e ha cominciato a soffocare. È stato straziante, ho pensato sarebbe morta. Due mesi dopo, i medici ci hanno detto che stava meglio. Ha una grande cicatrice sul volto, ma sta bene, più o meno».
Kozyreva è stata anche in Donbas, ha girato tutta l’Ucraina. Una costante, di tutti i conflitti: «Le storie dei bambini sono quelle che mi hanno segnato di più. Ho parlato con molti altri reporter di guerra, che sono stati in Afghanistan e così via. Quasi tutti sono d’accordo con me: sono le storie più difficili da raccontare per noi giornalisti. Quando scoppia un conflitto, gli adulti possono scegliere se arruolarsi, fare volontariato, evacuare, ma i bambini non hanno scelta. Sono intrappolati nella guerra».
“Opinione pubblica” è un’espressione abusata. Ma i volti di quei bambini, quelli dei cittadini trucidati per strada, le aberrazioni di Bucha e Irpin’, la scia di stupri, esecuzioni sommarie e di orrori lasciata dietro di sé dalle truppe di occupazione, sono indelebili nella retina degli spettatori di tutto il mondo. Non hanno retto un secondo le falsificazioni del Cremlino, che mente sapendo di farlo, fa il tiro al bersaglio sugli obiettivi civili e si è macchiato dei più indicibili crimini contro l’umanità dalla Seconda guerra mondiale.
«Dico sempre che è sufficiente raccontare la verità, non serve nessun tipo di propaganda. Per l’Ucraina basta questo. Quando a migliaia fuggono da Mariupol’ e rilasciano la stessa testimonianza, non ti serve essere là per capire quanto sia grave la situazione. È impossibile fabbricare immagini o mentire, come puoi convincere migliaia di persone della stessa cosa? Numerosi giornalisti internazionali sono venuti qui, i media hanno investito molte risorse, e hanno raccontato le atrocità. È stato cruciale per il sostegno finanziario e militare anche dei governi inizialmente riluttanti. La Russia e le altre dittature devono ancora capirlo: non puoi fare quello che vuoi quando è l’intero mondo a guardarti».