Quasi quarantotto mesi di riflessione, scambi di vedute, lavoro. Ma a giudicare dal risultato si può dire che mai anni sono stati così bene spesi. Anche perché, ed è Seneca a ricordarcelo (De ira II, 2), «veritatem dies aperit», il tempo svela la verità. Se ne ha piena contezza leggendo le 216 pagine del libro di Martina Castigliani Libere. Il nostro No ai matrimoni forzati (PaperFIRST, Roma 2022, €17). Libro che, in distribuzione da venerdì 4 novembre, si divora in un soffio con un misto di scoramento e speranza, perché palpita della vita di Fatima, Yasmine, Zoya, Khadija, X.
Sono cinque giovani donne, che nate in Bangladesh, Afghanistan, Pakistan, India e cresciute in Italia, si sono ribellate ai matrimoni forzati, rinunciando «alla loro identità: ora vivono lontane dalle famiglie e si stanno ricostruendo una vita» (p. 10). Sono cinque giovani donne, di cui non si conoscerà mai «il nome, il numero degli anni o dove vivono. Non ti diremo quanto sono alte. Scordati i colori degli occhi, dei capelli, della pelle. Ogni dettaglio che può farle individuare è stato cancellato: il tono di voce, quel modo inconfondibile di gesticolare e, soprattutto, la piega delle labbra quando arriva in testa un ricordo più brutto di altri. A volte, al posto delle parole, troverai delle x: ad esempio, nel bel mezzo della storia, vedrai che una ragazza dice “xxx”. Sono le frasi più pericolose, perché rendono le storie identificabili e abbiamo dovuto cancellarle. Dovrai immaginarne il suono, ma prima di tutto la potenza» (p. 9). A catturarne la personalità, «a dare un volto a chi non può mostrarlo» (p. 13), ci ha pensato Elisabetta Ferrari con cinque illustrazioni disegnate a matita secondo le rispettive indicazioni di Fatima, Yasmine, Zoya, Khadija, X.
Sono loro le Libere, di cui parla questo libro, o meglio, le Libere che qui parlano in prima persona. Non a caso Martina Castigliani, giornalista de ilfattoquotidiano.it e già scrittrice di Cercavo la fine del mare. Storie migranti raccontate dai disegni dei bambini (Mimesis 2019), le presenta sin da subito come coautrici di un’opera, in cui esse si raccontano, e lo hanno ribadito a ogni incontro, «per le altre, perché devono sapere che si può fare». E per le altre è la dedica che si legge in esergo.
Per loro e per noi tutte è questo volume. Perché è un dato di fatto, e l’omicidio di Saman Abbas l’ha comprovato drammaticamente, che in Italia i matrimoni forzati sono al centro della comune attenzione, solo quando una ragazza viene uccisa e che si riducono per lo più in strumentalizzazioni islamofobiche da parte di esponenti della classe politica. E proprio della diciottenne d’origine pakistana, uccisa a Novellara il 30 aprile 2021, parla esplicitamente Fatima, che così conclude la sua confessione: «Vedere la fine di Saman mi ha fatto stare male, ho pensato che avrei potuto essere al suo posto. Ecco perché ho accettato di raccontare quello che è successo a me. Lo faccio per le altre. Perché devono sapere che c’è un’alternativa. A chi non ha ancora avuto il coraggio di scappare voglio dire una cosa: sarà difficile, ci saranno un sacco di ripensamenti, tanti crolli. Ma quando alla fine cominci a costruire qualcosa è una grande soddisfazione. Sei finalmente libera, che è ben diverso da quando la tua famiglia ti fa credere di essere libera» (pp. 40-41).
Postfato da Cinzia Monteverdi e arricchito d’un elenco, sia pur incompleto, di storie simili a quelle delle cinque protagoniste ma sparite troppo in fretta dalle cronache, il libro si compone di una seconda parte che guarda al futuro, aprendo i cuori alla speranza. Vi sono raccolte le testimonianze della consigliera comunale di Reggio Emilia Marwa Mahmoud, dell’insegnante online d’italiano per la comunità bengalese Tashina US Jahan, dell’attivista Lgbt+ e regista pakistano naturalizzato italiano Wajahat Abbas Kazmi. Quest’ultimo, autore del documentario Allah Loves Equality, ha avviato nel 2018 un’importante campagna di sensibilizzazione per chiedere giustizia sulla morte di Sana Cheema, che, residente da anni a Brescia ma poi costretta a rientrare in Pakistan, era stata qui sgozzata, nell’aprile di quell’anno, dal padre e dal fratello per il solo fatto di voler sposare un italiano.
Completano il tutto l’intervista a Tiziana Dal Pra, fondatrice di Trama Di Terre, associazione di donne native e migranti, e prima persona a interessarsi nel nostro Paese di ragazze che spariscono, una volta raggiunta l’età per sposarsi; la riflessione dell’educatrice e operatrice antiviolenza Alessandra Davide; la conversazione con Angela Bottari che, deputata del PCI per tre legislature dal 1976 al 1987, s’è battuta per l’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (risultato ottenuto nel 1981) ed è stata proponente, relatrice, promotrice della prima proposta di legge contro la violenza sulle donne. Conversazione, quest’ultima, che è un piccolo gioiello e che mette in luce la lucidità di pensiero dell’ex parlamentare messinese, che, durante il suo mandato, s’è distinta insieme con Romana Bianchi, Ersilia Salvato, Maura Vagli, Carla Nespolo, tutte componenti del Gruppo interparlamentare delle Donne comuniste, per la tutela dei diritti tanto delle donne quanto delle persone Lgbt+. Ad Angela Bottari va riconosciuto il merito d’essere stata tra le principali artefici dell’approvazione della legge 164/1982, che, recante Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, ha ridato alle persone trans una dignità a lungo misconosciuta e posto fine a un annoso calvario giudiziario per le stesse.
È lei a ricordarci in Libere. Il nostro No ai matrimoni forzati (p. 176) che «le rivolte individuali possono riuscire oppure no. Da sole, non bastano. Serve sviluppare una relazione tra le donne e trovare la forza di reagire insieme. Per noi ha fatto la differenza. Io posso aver rappresentato, da ragazza, la rivolta individuale, ma non avrei fatto la strada che ho fatto se non avessi avuto compagne di viaggio». Che «il segreto per riuscire ad avere un cambiamento nelle società» consiste innanzitutto nel «trovare le compagne di viaggio».