Giorgia Meloni prova a governare, ma non ha una classe dirigente adeguata alla complessità del compito, e del resto non può averla perché è diventata la leader del primo partito italiano proprio perché in questi anni si è guardata bene dal proporre agli elettori cose sensate, realizzabili e meno che strampalate.
Meloni ha fatto l’opposizione a Mario Draghi, alle operazioni europee di salvataggio del nostro paese e al piano di ripresa nazionale finanziato da Bruxelles, un triplete da irriducibile leader anti italiano più che sovranista.
I suoi alleati poi sono alla frutta, chissà come si scrive “frutta” in cirillico, ed è inutile soffermarcisi se non per ribadire che sia la Lega sia Forza Italia sono un motivo di imbarazzo nazionale senza precedenti e per questo meritevoli di rimanere ai margini del consesso civile.
Il centro liberal democratico di Carlo Calenda e Matteo Renzi è ancora da costruire (fate presto!) e i Cinquestelle sono i Cinquestelle, ovvero una fiction sudamericana trasmessa in streaming dentro una fabbrica di bot foggiani e associati.
Sia i Cinquestelle sia Renzi e Calenda stanno provando a scalare il Partito democratico, ovvero l’unico partito costituzionale e repubblicano del paese, senza il quale negli ultimi dieci anni l’Italia sarebbe affondata nei debiti e nel ridicolo.
Che qualcuno oggi stia pensando di mangiarsi a colazione il Pd non è la misura della mitomania della politica italiana, semmai è la stravagante gestione del Pd post renziano.
Il Pd di Renzi ha preso sia il 40 per cento sia il 18 per cento dei voti degli italiani e ha governato da solo per cinque anni. Piaceva o no, quel Pd aveva l’idea precisa, mutuata dal New Labour blairiano e dal progressismo democratico obamiano, di cavalcare l’innovazione tecnologica e di gestire i cambiamenti conseguenti sociali, probabilmente sottovalutandone la portata, con l’obiettivo di conciliare meriti e bisogni al fine di ottenere una società più affluente e più giusta.
Una visione criticabile quanto si vuole, ma capace di individuare un orizzonte politico.
Contro il progetto di Renzi si è schierata la cosiddetta “ditta” del Pd, il gruppo dirigente romanocentrico che ha solleticato quegli antichi istinti della base che erano stati sacrificati all’idea fondativa del Pd. Appellarsi agli istinti della natura post comunista, è stato un modo per fomentare una grande mobilitazione militante e facilitare la cacciata dell’usurpatore fiorentino (il quale nel frattempo aveva fatto di tutto e anche di più per meritarsi l’imperituro risentimento dei suoi ex compagni).
Il problema della “ditta” è stato quello di non aver offerto una visione alternativa a quella renziana, oltre a quella tattica e precisa di sbarazzarsi di Renzi. Riconquistato il Pd in nome dell’orgoglio della sinistra-sinistra – che è un altro modo per definire i nostalgici del Pci con tutto l’arrugginito armamentario anticapitalista, antioccidentale e antiamericano dei bei tempi andati – la narrazione “nativa democratica” del Pd e la strategia veltroniana della “vocazione maggioritaria” non sono state più credibili né spendibili né utilizzabili.
L’idea originaria del Pd non è stata sostituita neanche da una specie di neo-rifondazionismo pidiessino che perlomeno sarebbe stato coerente, sebbene fuori sincrono con la storia, ma invece si è tentato di tenere insieme tutto e il contrario di tutto col risultato di perdere l’anima e smarrire l’identità.
Niente di tutto ciò, per quanto deprecabile e masochista, è però paragonabile alla sciagurata e offensiva decisione presa da Zingaretti e confermata da Letta, sempre in funzione anti Renzi, di sottomettersi all’egemonia subculturale di Giuseppe Conte e dei populisti grillini.
Una tragicommedia che nel finale ha visto l’interruzione temporanea dell’alleanza con i Cinquestelle poco prima delle elezioni, riservandosi di riattivarla dopo la sconfitta elettorale, e si è perfezionata con il taglio dei rapporti con la sponda liberal dell’area anti sovranista e con la celebrazione dell’avversaria Meloni quale unica interlocutrice degna di questo nome, salvo poi definirla un pericolo letale per la democrazia senza però aver costruito il fronte antifascista per fermarla, perché in fondo l’obiettivo politico primario di queste elezioni era quello di far fuori Renzi e i riformisti (soprattutto quelli del Pd) e di mantenere per quanto possibile quel piccolo o grande potere che consente di scegliere chi va in Parlamento, chi piazzare nelle municipalizzate, chi far gestire la Festa del Cinema.
Questo capolavoro del Pd sarà studiato nelle scuole di formazione politica di tutto il mondo, forse anche dagli studenti di SciencePo, ma prima di immortalarlo nei manuali universitari c’è ancora da assistere all’epilogo.
A febbraio, infatti, ci saranno le primarie per la guida del Pd e le elezioni in Lombardia, la regione locomotiva del paese.
La sfida interna è tra una candidata non iscritta al Pd, ma sostenuta dalla ditta e dall’ala sinistra, Elly Schlein, e un dirigente di partito come Stefano Bonaccini che al momento non sembra ancora pronto a scegliere la strada da proporre ai suoi elettori, anche perché per vincere le primarie il suo naturale riformismo emiliano dovrà diluirsi nel populismo meridionale di Michele Emiliano e di Vincenzo De Luca col rischio di non apparire credibile. Una vittoria di Bonaccini, per quanto auspicabile, rischia quindi di allungare l’attuale agonia del partito senza più anima.
La proposta da collettivo studentesco contro il «mantra neoliberista della disintermediazione»di un eventuale Pd di Elly Schlein, di Peppe Provenzano e di Brando Benifei, ma anche di Pierfrancesco Majorino, candidato alla presidenza della Lombardia e al terzo posto in classifica, è destinata invece a conquistare molti cuori su Twitter e il collegio di Instagram ma inesorabilmente anche a consegnarsi al populismo di Conte e a perdere l’unico blocco sociale rimasto fedele al Pd, cioè quello composto dalla nuova borghesia cittadina e dalle classi affluenti che vivono nelle zone a traffico limitato.
Col Pd guidato da chi dileggia i suoi elettori («ztl», «Milano non restituisce»), quelli come Calenda, Renzi e tutti gli altri che si candidano ad offrire agli elettori un’alternativa al bipopulismo hanno finalmente l’occasione unica di costruire un vero partito liberal e progressista, repubblicano e atlantico, popolare ed europeo, come scriviamo su questo giornale da un paio d’anni.
Un’alternativa seria al bipopulismo che accelererà l’irreversibile involuzione del Pd da splendido partito a vocazione maggioritaria ad alleato strategico dei Cinquestelle, giù giù fino a trasformarlo in una tenace e combattiva corrente di minoranza del populismo di Conte.