Un collettivo di cinque giovani registi di talento, un documentario girato nei mesi del primo lockdown, una storia e un personaggio decisamente urticanti. Con questi ingredienti il lungometraggio “Corpo dei giorni”, girato dal collettivo Santabelva e prodotto da “A small Company”, non poteva non attirare l’attenzione della giuria del Torino Film Festival, manifestazione che da quarant’anni promuove i nuovi linguaggi, le opere prime, i film sperimentali e le produzioni indipendenti.
Selezionato per la categoria “Miglior Documentario” e poi vincitore del premio di “Miglior Film”, “Corpo dei giorni” è stato proiettato in prima ufficiale il 27 novembre per raccontare al pubblico del Festival una storia non semplice: l’incontro con l’ex terrorista nero Mario Tuti, fondatore negli anni Settanta del Fronte Nazionale Rivoluzionario, condannato a due ergastoli per tre omicidi e diversi attentati e oggi, dal 2013, in regime di semilibertà. E, soprattutto, mai pentito.
Il documentario, girato nella tenuta della maremma laziale in cui Tuti viene ospitato in seguito al permesso straordinario legato all’emergenza Covid (ci passerà cento giorni) riapre pagine drammatiche e, tra le dolci immagini dei campi e dell’addestramento dei cavalli, fa intravedere i lati oscuri della storia del nostro Paese.
Per capire da dove è nata l’idea di un documentario con un protagonista come Mario Tuti, alla vigilia del Festival abbiamo incontrato quattro dei cinque membri del collettivo: Henry Albert, Gianvito Cofano, Nikola Lorenzin e Saverio Capiello che, con Niccolò Natali e un Santabelva ad honorem, Alessandro Belotti, coinvolto in fase di montaggio, formano il collettivo nato a Milano nel 2018.
«L’idea di partenza è nata con la pandemia. Abbiamo subito capito che, intorno al lockdown, si aprivano possibilità espressive e narrative molto forti. E quando, grazie a una rete di contatti, siamo venuti a sapere di questo ergastolano che, mentre tutta Italia stava chiusa in casa, aveva potuto lasciare il carcere con una licenza straordinaria ed era libero in una tenuta di svariati ettari, ci è sembrato un punto di partenza interessante per affrontare il tema della libertà. Delle libertà sociali e individuali», spiega Henry Albert.
Mario Tuti, però, non è “semplicemente” un ergastolano, di suo ha una storia ingombrante e, anche oggi, continua a guardare il mondo da una matrice fascista. Così, giorno dopo giorno, le riprese cambiano: via il teleobiettivo – che avrebbe dovuto documentare a distanza la quotidianità di un ergastolano in libertà – per le riprese ravvicinate, con la videocamera a mano. «Quando abbiamo conosciuto Mario il tema del lockdown è finito sullo sfondo, da un certo punto non ce n’è quasi più traccia. Forse all’inizio c’è stata un po’ di ingenuità da parte nostra: guardavamo a lui più come a un ergastolano che a un esponente dell’eversione nera. Invece, quello di cui Mario parlava in continuazione ha inevitabilmente portato la storia su un’altra direzione, ha portato in primo piano il fascismo e l’irriducibilità. Questo tema è diventato dominante».
Mario Tuti si prende tutta la scena favorito anche dalla sua “presenza” fisica e da una voce e una gestualità da attore consumato, dall’eloquio scorrevole e ricercato, ma a lasciare il segno e a graffiare sono le sue parole. Tuti ripete di non essere pentito per gli uomini che ha ucciso («era una guerra»), dichiara commosso che «il fascismo è eterno» e provoca i registi dicendo di non voler essere salvato «dalla generazione Ryanair». «Piano piano Mario stava trasformando il documentario nel suo testamento politico», continua Nikola Lorenzin.
«Serviva un contraddittorio che però non poteva provenire da Pio e dagli altri suoi amici della tenuta ma soltanto da noi, da persone su posizioni distanti dalle sue, così siamo entrati in scena. Fino al cortocircuito: noi cercavamo una riflessione sulla sua storia, forti delle interviste nelle quali, in passato, aveva messo in discussione certe ferree convinzioni. Invece ci ha ripetuto di difendere ancora le sue scelte».
Un documentario che ha giustamente meritato l’attenzione del Tff, bello e urticante, dicevamo. Mixato anche alle immagini degli spezzoni dei TG e delle prime pagine dei giornali dell’epoca. Perché, quando Tuti dice forte e chiaro: «Non potete giudicarmi se non avete fatto quello che ho fatto io», è inutile girarci attorno: sono le immagini, coerenti con la narrazione dell’epoca, a poter spiegare di chi stiamo parlando.