IntramontabilePerché la carta stampata (indie) è ancora magnetica per i brand di moda

Le voci del fashion system e dell’editoria indipendente ci raccontano come (e perché) questi due universi, nonostante il periodo storico complesso, rimangono strettamente legati

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Per ascoltare la nona puntata de “La teoria della moda”, il podcast de Linkiesta Eccetera dedicato al fashion system, clicca qui

La carta stampata è morta, viva la carta! Lo raccontiamo da anni immemori, della perenne crisi dell’editoria cartacea, mentre nel frattempo nascono progetti di magazine indipendenti che sconfessano le nostre teorie pessimistiche. Ma cosa vuol dire oggi essere un magazine indipendente? E come questi prodotti si alimentano, e riescono a crearsi un loro campo d’azione? Si vendono? Chi li compra? E perché i brand del lusso sono sempre più interessati a lavorare con loro? 

Se ne parlava già nel 2018 pre-pandemico, ma dopo la grande crisi editoriale della scorsa estate – che ha portato i gruppi maggiori, tra cui Hearst e Condé Nast, a importanti progetti di ristrutturazione interna, con consistenti tagli del personale – l’argomento, tra gli insider, è diventato all’ordine del giorno, complice anche la nascita costante di nuovi progetti editoriali. E proprio di magazine indipendenti si parla qui, oggi, a “La teoria della moda”

Ma partiamo dalle basi: cosa vuol dire magazine indipendente? In pratica, si tratta di prodotti cartacei – con le classiche interazioni sui social – che non hanno dietro i grandi gruppi editoriali (in Italia, i maggiori che si occupano di lifestyle e moda sono appunto RCS, Condé Nast, Hearst, e poi Mondadori) e che quindi non dispongono delle solide – e a volte appesantite – strutture di marketing, ma anche di chi si occupi della distribuzione, e del reparto pubblicitario, cioè quello che stringe con i brand gli accordi economici per garantire la presenza delle maison con pagine pubblicitarie sul giornale (che poi sono quelle che consentono al magazine di trarre dei profitti, non si vive certo delle copie vendute, tranne che in pochi eccezionali casi). 

Considerato il momento storico, la presenza dei social e degli influencer, il budget che le maison allocano ogni anno alla pubblicità, e quindi alla loro presenza su questo o quel media, non è più totalmente dedicato ai giornali di carta, ma è stato parcellizzato per andare a coprire tutte le aree sopra citate, le collaborazioni con gli influencer di Instagram, gli adv con i Tiktoker, e più banalmente anche i magazine online. I brand, di conseguenza, sono sempre meno inclini a far passare il loro sostegno economico ai magazine  attraverso la pagina pubblicitaria, quella che viene chiamata in gergo tecnico “la tabellare” (l’investimento pubblicitario, in teoria, è un attestato di stima, un segnale che quel magazine raccoglie un bacino di lettori e un’utenza nella quale la maison individua dei suoi potenziali compratori). 

Tra l’altro, a marzo uno studio di PwC con i dati analizzati da The business of fashion ha concluso che nel 2023, i ricavi della pubblicità digitale delle riviste di consumo supereranno i ricavi della pubblicità sulla carta stampata raggiungendo un turnover di 11,3 miliardi di dollari (10,2 miliardi di euro) contro i 10,3 miliardi di dollari dei patinati. Questo non vuol dire che l’editoria cartacea sia morta, ma di certo bisogna pensare a delle metodologie diverse per conquistare il potenziale investitore. La domanda però è: in un panorama già saturo di riviste con solidi apparati marketing e una reputazione di grande autorevolezza, come fanno questi magazine indipendenti non solo a sopravvivere, ma a ricavarsi uno spazio nel quale proliferare e trovare la propria voce? 

In America ci sono dei casi che sono già “di studio”: i magazine indipendenti storici sono considerati come aggregatori culturali, e quindi salvaguardati. Nel 2018 Interview, il magazine fondato da Andy Warhol nel 1969, dichiarò bancarotta e annunciò la chiusura: neanche il tempo di saltare un numero che fu acquisito da due investitori, Kelly Brant e Jason Nikic, che ne hanno appianato i debiti e lo hanno rilanciato. The Face, nato nella Londra delle controculture del 1980, e chiuso nel 2004, è stato rilanciato nel 2019 da Wasted Talent, piattaforma digitale e cartacea, che ha detto al New York Post nel 2019 che intendeva spendere circa 6,2 milioni di dollari nei successivi due anni, prima di aspettarsi dei profitti.

E in Italia? Abbiamo parlato con alcuni dei più interessanti magazine indipendenti italiani, per cercare di tracciare un profilo, di questo nuovo scenario dell’editoria. Un buon esempio di partenza è Kaleidoscope, rivista semestrale fondata a Milano nel lontano 2008, che ha come Publisher e direttore creativo Alessio Ascari. Un approccio interdisciplinare, che fa dialogare illustratori, artisti, fotografi, il prodotto ha una sua iterazione su Instagram, ma più che nelle edicole o sui social, prende vita nelle città, come nel caso di Kaleidoscope Manifesto, la tre giorni di dibattiti e talk che il magazine ha organizzato a Parigi, all’Espace Niemeyer, in collaborazione con Goat, portale da 4 milioni di follower su Instagram, dove si acquistano e si rivendono sneaker, che, a sua volta, ha lanciato una pubblicazione semestrale, Greatest.  

 

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All’interno del Manifesto di quest’anno erano presenti dei talk con Tremaine Emory, nuovo direttore creativo di Supreme, workshop con Classic Paris, Publisher e casa editrice dietro alcuni dei titoli più interessanti del mondo degli indie mag, ma anche installazioni di Mowalola, stilista e cantante di origine nigeriana ma basata a Londra, e molto amata dal mondo dello streetwear. Tra i clienti per i quali Kaleidoscope ha realizzato dei progetti, si legge sul loro sito, ci sono brand come Gucci, Rimowa, Nike, ma il vero gioiello della corona è la curatela dello Spazio Maiocchi, a Milano. 

Fondato da Carhartt Wip e Slam Jam, lo spazio copre più di 1000 mq ed è stato ripensato dall’architetto Andrea Caputo: aperto ufficialmente nel 2017, da allora Kaleidoscope ne cura la programmazione, organizzando mostre ed eventi capaci di costruire intorno al luogo, e di conseguenza al giornale, anche una nutrita community. Dentro lo Spazio Maiocchi, solo per citarne alcuni, sono comparsi i lavori di Sterling Ruby e Virgil Abloh. Come funzionano, davvero, i magazine indipendenti, e quali sono le principali differenze con i magazine dei grandi gruppi ce lo spiega però Silvia Schirinzi, fashion director di Rivista Studio, magazine trimestrale di attualità fondato nel 2011 da Alessandro De Felice e Federico Sarica, che ha al suo interno anche MoST, agenzia di creazione contenuti. 

«Sicuramente la differenza principale è nella quantità di persone che ci lavorano, la struttura, e i budget disponibili.  La differenza più grande a livello di struttura organizzativa rimane questa, oltre che a livello di business, perché un progetto come Studio editoriale ( la casa editrice di Rivista studio, ndr) che ha al suo interno Rivista Studio, Undici, VO+ che è il magazine della fiera dell’alta gioielleria di Vicenza e l’agenzia creativa MoST – con la quale creiamo contenuti per terzi – ha questo modello di business verso il quale si stanno indirizzando anche i grandi gruppi editoriali che invece per anni hanno vissuto sulle tabellari, che non garantiscono più l’introito di una volta. Diciamo che noi siamo una piccola boutique editoriale, realizziamo progetti tailor made: MoST realizza anche diversi progetti editoriali per entità diverse tra loro, il magazine di Pirelli, Wor(l)d, o Urbano, il magazine dedicato alla cultura dell’urbanistica realizzato per il centenario di Borio Mangiarotti. Insomma, partecipiamo alle gare a cui partecipano i grandi editori, ovvio che lavorare con il nostro gruppo editoriale è diverso che lavorare con un gruppo più grande».

 

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Non solo quindi organizzazione di eventi, ma anche produzione di contenuti per i magazine che gli stessi brand pubblicano e inviano ai loro maggiori clienti, per i quali fa ovviamente comodo servirsi di professionisti della comunicazione, che possono creare un prodotto quanto più possibile editoriale e di conseguenza, di qualità. Ma cosa ha cambiato davvero le carte in tavola e ha portato i grandi brand a voler preferire dei progetti tailor – made alla solita pagina pubblicitaria? Secondo Schirinzi, la linea di confine tra ieri e oggi si traccia con l’arrivo dei social, che hanno consentito ai brand di poter parlare direttamente con i loro potenziali clienti, senza l’intermediazione del giornale, che quindi, deve trovare nuove formule per essere ancora autorevole.

«Con l’arrivo del digitale questi rapporti sono stati scardinati, perché col tempo i marchi hanno trovato nuovi modi per costruire il racconto intorno a se stessi, quindi di fatto oggi soprattutto i grandi marchi che fanno parte dei grandi gruppi nella moda, praticamente non hanno bisogno dei giornali per arrivare alle persone, anzi, hanno molta più libertà, e molti meno filtri per poter arrivare direttamente ai potenziali clienti. La difficoltà dei giornali oggi, per quelli più classici, nasce dalla necessità di adattare un modello che per molti versi è sempre stato ripetitivo, e puntava un po’ sulla “pesca a strascico”, e realizzare un contenuto modellato per il cliente e per il suo lettore».

Oltre alla realizzazione di progetti ad hoc per i brand, inoltre, Rivista Studio organizza annualmente un festival, Studio in Triennale, proprio all’interno dell’omonima istituzione milanese: un weekend live pieno di incontri, talk e discussioni che si articolano intorno a un tema preciso. La presenza di un’agenzia creativa, capace di sviluppare progetti ad hoc con i clienti/brand è comune anche a C41, magazine che nasce nel 2016 dall’incontro tra Luca Attilio Caizzi (editorial e creative director), Leone Balduzzi (managing and creative director) e Barbara Guieu (executive Producer). 

Prima di allora Caizzi aveva un blog/magazine di fotografia, mentre gli altri due erano a capo di una società creativa, la k48 srl, oggi non più esistente. Un progetto, quello di C41, inizialmente molto concentrato sulla fotografia analogica (il processo c41 è un processo di sviluppo per pellicole a colori introdotto dalla Kodak nel 1972) e che poi ha deciso di intercettare la sua nicchia di appassionati anche attraverso un progetto cartaceo. Perché? È lo stesso Caizzi a spiegarlo:

«Oggettivamente il cartaceo ci ha permesso di sedere a dei tavoli dove prima, solo con l’online, era impossibile accedere: questo significa essersi posti l’obiettivo di raggiungere un pubblico più adulto, e sicuramente capace di rispondere  alle nostre esigenze, quello di “comprare” quello che avevamo da dire». 

L’atterraggio su carta gli ha quindi permesso di sedersi ai tavoli con dei brand che, complice la loro esperienza in un’agenzia di produzione creativa che si occupava principalmente di video, desideravano proprio essere raccontati tramite quel mezzo, sempre con un occhio editoriale, che rispettasse la filosofia del prodotto. Inoltre, come per Rivista Studio, si realizzano progetti ad hoc, giornali o zine, a cui si accompagnano anche eventi di presentazione. Lo spiegano Leone Balduzzi e Luca Caizzi

«Abbiamo realizzato per The Northface un progetto editoriale che si chiama LSE, che è stato pensato creato e disegnato internamente; abbiamo realizzato per Nike due progetti editoriali, uno per il lancio di una scarpa, la React, poi anche con Adidas per il lancio di Forum 84 che si accompagnava anche all’activation in store e a correlata Fanzine; abbiamo lavorato con Clark’s su un prodotto editoriale spedito ad una serie di giornalisti e poi abbiamo all’attivo un progetto con Nike, incentrato sulla rivalutazione del quartiere Baggio a Milano. Il progetto è similare a quello che Nike ha realizzato già a Pigalle, a Parigi, con il campo da basket: sono progetti all’ordine del giorno ed è il modo nel quale il giornale riesce a sostenersi». 

Il campo da basket di Pigalle, Parigi (Unsplash)

Ciliegina sulla torta, a raccontare un magazine che ha creato una community che magari ha il desiderio di divenire identitaria, c’è la Basic Collection, linea di felpe con cappuccio, t-shirt, sporte in tessuto, pantaloni da ciclista e mug, tutte caratterizzate dal total black, colore feticcio della moda dagli anni 90 del minimalismo in poi. Una mossa che ambisce a definire il magazine non solo come un “luogo” cartaceo e digitale dove si ritrovano gli appassionati, ma anche un brand di lifestyle.

Considerati tutti questi buoni esempi, gli elementi in comune sembrano essere quelli del dialogo con i brand e con le istituzioni, per creare dei progetti ad hoc, grazie anche alle agenzie creative al loro interno, uno staff ridotto e flessibile che quindi può darsi il cambio su una serie di compiti, e una periodicità non classica, trimestrale o semestrale, per contenere i costi sempre più alti della carta e della stampa, tra gli altri motivi. Ma davvero, poi, ci sarà questa nuova primavera dei magazine indipendenti?

Lo abbiamo chiesto a Francesca Spiller, che a Milano ha Reading Room, uno spazio aperto nel 2018, frequentato da studenti, ma anche da grafici, pr, stylist e art director, nel quale acquistare e sfogliare esclusivamente magazine indipendenti (ci sono quasi 300 titoli). Nel suo passato non c’è l’editoria, ma la fotografia, che l’ha portata a lavorare per riviste sì, ma anche per musei, e per questo collezionava magazine che di quell’argomento si occupassero. 

«Il progetto è partito nel 2018 e ha avuto da subito un buon riscontro, anche perché a Milano ci sono diverse industrie creative, moda, design ma anche tutto il mondo della comunicazione, della pubblicità, degli eventi, vari ed eventuali, e non ultimo un bacino importante di studenti». 

E per quanto a chi abiti nello stivale questo spazio appaia quasi futuristico, gli shop dedicati solo a questo tipo di riviste non sono una novità: il primo, a Berlino, Do you read me, è stato aperto addirittura nel 2009. Un fenomeno in crescita, considerato che, secondo Spiller, ogni anno nascono centinaia di nuovi magazine, e solo nel 2022, 30 nuovi titoli sono stati inseriti all’interno dello shop. Ma ai giovani interessa davvero sfogliare magazine cartacei?

«Ti faccio una premessa: sono contro la retorica dell’“editoria è morta” o anche di chi, dall’altra parte, vive nella nostalgia della carta stampata. La maggior parte dei progetti editoriali indipendenti però, sono realizzati da ragazzi che hanno tra i 25 e i 30 anni, anagraficamente persone che non hanno conosciuto l’epoca dei giornali in edicola, non lo fanno certo perché hanno nostalgia del profumo della carta. Dall’altra parte, per gli studenti, considerando che il prezzo medio di questi magazine è 20 euro – alto per un magazine classico, ma basso se si pensa ad un libro illustrato di moda, che viaggia sui 40/50 euro – è un entry level perfetto. Inoltre, se il libro illustrato è molto spesso monografico, il giornale, per la sua struttura a rubriche, ti porta a conoscere una varietà di nomi e argomenti: quindi a prezzo inferiore, raggiungi una maggiore varietà di contenuto».

Compreso il come funzionano questi magazine, e la presenza di un pubblico che ha bisogno di questo prodotto come viatico ad una ricerca creativa ad un prezzo accettabile, perché ad oggi, per i brand, magari con degli Heritage importanti, o parte di grandi gruppi del lusso, e non solo marchi di streetwear, è interessante collaborare con queste pubblicazioni? Lo abbiamo chiesto a Vittoria Pietropoli, communication director di Loro Piana, parte del gruppo LVMH:

«Dopo anni ed epoche di editoriali “pagati/non pagati”  con i grandi magazine, quello che io noto che è rimasto forte, è la componente creativa di questi magazine indipendenti, che non sono tanto mossi dall’investimento che un brand può fare sul loro prodotto, quanto dal desiderio di fare cultura. Alla fine, fare moda è fare cultura. Anche per un brand come Loro Piana, quindi, lavorare con loro è interessante, perché quello che ti da un magazine indipendente è, in primis, la visione del tuo brand sotto un’altra ottica, che tu, che in quell’estetica sei immersa, non puoi avere. In secondo luogo ottieni una legittimazione attraverso di loro, nella loro audience, e quindi magari con una community di nicchia, che però ha davvero tutti i caratteri di una comunità».

C’è quindi chi questi giornali li produce, riuscendo nel contempo a fare cultura, e pagare l’affitto; chi li legge come strumento lavorativo, o di studio, e c’è la moda, che è interessata a rimanere rilevante per un pubblico di addetti ai lavori o di studenti, probabilmente assai più giovane dell’audience dei magazine classici. Non sembra mancare niente: forse è proprio vero, che la carta stampata non morirà mai. Però di certo, sta cambiano parecchio. 

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