La politica ambientale e climatica di Anthony Albanese, diventato primo ministro australiano nel maggio 2022, non sta esattamente andando secondo i piani. Il cinquantanovenne, alla guida del Partito Laburista, aveva promesso una svolta ecologista dopo dieci anni di negazionismo e inazione climatica da parte dei governi conservatori. In base ai dati ufficiali, prima delle elezioni il carbone era la fonte primaria di elettricità dell’Australia. Secondo un sondaggio di Climate compass, il quarantadue per cento degli elettori che si sono “convertiti” ai laburisti lo ha fatto principalmente a causa della loro preoccupazione per la crisi climatica. La percentuale sale al quarantasette per cento per gli elettori che si sono dichiarati «indipendenti».
Le premesse sembravano buone, dato che Canberra ha ribadito, durante la Cop27, la promessa di tagliare del quarantatré per cento le emissioni di carbonio entro il 2030 e di azzerarle entro il 2050, senza dimenticare una riduzione delle emissioni di metano. Il quadro, però, è contraddittorio perché l’Australia non si è ancora impegnata a sospendere l’espansione di nuovi progetti carboniferi e minerari, né ad interrompere quelli esistenti. In sostanza, continua a fornire sussidi per lo sviluppo dei combustibili fossili e non ha firmato alcun accordo di transizione per l’energia pulita.
Il Rapporto sullo stato dell’ambiente, diffuso durante l’estate dalla ministra dell’Ambiente laburista Tanya Plibersek ha evidenziato preoccupanti segnali di peggioramento nel corso degli ultimi cinque anni. Il documento, completato nel 2021 ma non pubblicato dal precedente governo, spiega come l’ambiente in Australia «versi in cattive condizioni e si stia deteriorando a causa del cambiamento climatico, delle specie invasive, dell’inquinamento e dell’estrazione delle risorse».
Focalizziamoci sull’ultimo punto. Ci sono ottantamila miniere abbandonate in tutta l’Australia, e Mohan Yellishetty, professore associato presso il Dipartimento di Ingegneria Civile presso l’Università Monash di Melbourne, sta creando – grazie all’aiuto del suo team di ricerca – un database che consenta di mapparle tutte e di identificare le problematiche ambientali derivanti da ciascun sito. L’esperto ritiene che la presenza di così tante miniere abbandonate costituisca un rischio per la salute pubblica nel lungo periodo e che bisognerà agire per tenere sotto controllo la situazione.
L’Australia, come evidenziato dai dati forniti dal think tank britannico Ember, è la Nazione che produce più emissioni pro-capite – prevalentemente derivanti dal carbone – tra tutti gli Stati industrializzati del mondo. Nel 2021 ammontavano a 4,04 tonnellate di CO2 per persona: una riduzione significativa rispetto alla media di 5,34 tonnellate nel periodo compreso tra il 2015 ed il 2020, ma rimane una soglia più elevata rispetto alle 3,18 della Corea del Sud, giunta al secondo posto di questa poco invidiabile classifica.
La Cina e gli Stati Uniti si sono fermati, nel 2021, a 3,06 e 2,23 tonnellate ciascuno. Il declino (seppur lieve) delle emissioni di carbone australiane è imputabile, secondo Ember, al crescente uso di rinnovabili come l’energia solare ed eolica per la produzione di elettricità. Ma il carbone, come anticipato precedentemente, rimane la fonte primaria, con il settanta per cento della produzione complessiva.
L’industria mineraria ha fatto da volano all’economia australiana per decenni e il carbone è il secondo prodotto più esportato dal Paese: ha garantito proventi per quaranta miliardi di dollari nel 2020. Diverse Nazioni asiatiche, come Cina ed India, acquistano il carbone in abbondanza. Ma il novanta per cento degli incassi è finito nelle tasche delle compagnie minerarie mentre l’ammontare destinato alle casse statali non ha superato il dieci per cento del totale.
Le compagnie del settore hanno formato, negli anni, una vera e propria lobby in grado di influenzare profondamente la politica australiana. La forza lavoro del settore è pari ad appena quarantamila persone ma molte comunità rurali, che si trovano in seggi elettorali uninominali contendibili, dipendono ancora dall’industria mineraria. Andare contro la lobby significa perdere quei seggi, e con tutta probabilità le elezioni e il potere.
Il governo federale laburista governa con una risicata maggioranza nella camera bassa del Parlamento, dopo aver raggiunto la maggioranza chiave di settantasei seggi il 30 giugno 2022. Ma l’approvazione della legislazione dipende dall’opposizione dominata dai Verdi nel Senato. I Verdi, infatti, hanno condotto una campagna per fermare tutte le nuove miniere di carbone in Australia. Il portale del Partito Verde australiano sottolinea come il movimento, a differenza dei Liberali e dei Laburisti accusati di avere troppo potere e di aver provocato molti danni, non accetti donazioni dalle grandi corporazioni.
Gli ambientalisti sostengono che l’inquinamento, la deforestazione e l’avidità del mondo degli affari stiano spingendo l’ambiente naturale del Paese al collasso. Negli ultimi quindici anni la percentuale di voti ricevuti dai Verdi ha subìto oscillazioni legate al dibattito pubblico elettorale. La fedeltà dei loro elettori è molto inferiore a quella dei partiti principali, ma quando gli ecologisti riescono ad associare una comunicazione efficace alle tematiche che gli stanno a cuore ottengono successi significativi.
Nell’ultimo decennio gli ecologisti sono sempre riusciti ad ottenere il dieci per cento dei voti alle elezioni, mentre agli scrutini del 2022 hanno superato il dodici per cento dei consensi. Il sistema elettorale, che tende a favorire i partiti più grandi e radicati, li ha però penalizzati: alla Camera dei Rappresentanti hanno ottenuto appena quattro seggi su centocinquantuno. La situazione è migliore al Senato, dove gli scranni ottenuti sono ben dodici su settantasei.
Adam Bandt, leader dei Verdi e membro del Parlamento, ha dichiarato al Time: «Il più grande contributo che l’Australia può dare nella lotta al cambiamento climatico è quello di interrompere nuovi progetti relativi al carbone ed al gas». L’idea dovrebbe rivelarsi fruttuosa perché «l’azione per il clima», secondo il gruppo di pressione Climate Council, «è stata la vera vincitrice delle elezioni del 2022 e «milioni di australiani hanno pensato prima di tutto a questo nella cabina elettorale, mentre chi ha fatto resistenza ha pagato un prezzo molto alto».