Silicon Europe La corsa italofrancese ai semiconduttori che ha conquistato l’America

L’avventura di un’azienda e di una filiera all’avanguardia da decenni, dove il nostro continente può ancora giocare un ruolo decisivo, nell’ultimo libro di Marco Bardazzi (Bur)

Microchip semiconduttori
Foto: Laura Ockel, Unsplash

La debolezza dell’industria dei semiconduttori in Italia e in Francia durante la crisi degli anni Settanta ebbe un aspetto positivo: costrinse a essere creativi. Fu ben presto evidente che il boom dei computer e dei software per alimentarli sarebbe rimasto un mercato dominato dagli americani, ormai irraggiungibili su quel terreno. Ma l’elettronica e in generale la produzione industriale avevano molti altri ambiti nei quali i semiconduttori erano decisivi.

Nel polo di Grenoble ci si cominciò a specializzare sui prodotti per la telefonia digitale e su quelli per la gestione delle immagini, puntando in primo luogo sulla produzione per il settore televisivo, ma ponendo le basi per essere pronti a cavalcare in futuro tutto quello che sarebbe avvenuto con la fotografia digitale e poi con il matrimonio tra videocamere e telefoni cellulari. Insieme ai microcontrollori per le applicazioni embedded, sarebbe diventato un enorme business.

Ad Agrate, Catania e Castelletto, invece, la nuova SGS-ATES andò a caccia di spazi di crescita nel campo dei dispositivi di potenza. Fu un momento in un certo senso di scelta per l’Italia di fronte a un bivio che, volendo semplificare molto, portava in due direzioni: digitale o analogico? […]

Se dal punto di vista economico i conti non tornavano e restavano in rosso, da quello creativo e di marketing fu un periodo di grandi lezioni che in seguito sarebbero tornate utili. La prima delle quali era che bisognava saper ascoltare il cliente e lavorare insieme a lui per la realizzazione di prodotti dedicati a una specifica applicazione (che il cliente conosceva benissimo) o addirittura di tipo custom, realizzati su misura.

Il problema più grosso restava quello di far crescere il mercato e già in quei primi anni Settanta, pur in mezzo alle debolezze e ai limiti in cui si trovava SGS-ATES, si tentò di andare all’assalto del mercato più importante: gli Stati Uniti. «Aprimmo intorno al 1972 un ufficio a Boston, affidato a un manager italiano, Pietro Fox, e a sua moglie che fungeva da segretaria» ricorda Romano. «In due, dovevano cercare di “conquistare” l’America. La nostra strategia iniziale era puntare sul prezzo, promuovendo dispositivi standard necessari all’industria locale e cercando di venderli a un centesimo in meno delle ditte americane».

«Ma non funzionava, eravamo degli sconosciuti e il prezzo concorrenziale non bastava: nessuno sembrava voler affidare a degli italiani la produzione di semiconduttori in un Paese dove c’erano i big del settore. Stavamo per arrenderci e chiudere Boston quando una nuova strategia di promozione di prodotti innovativi ci fece conquistare il primo cliente: era la Zenith, che all’epoca era tra i pionieri della tv a colori. Acquistarono due nostri prodotti, che entrarono nella catena di produzione dei loro televisori».

Era un inizio importante per la presenza sul mercato statunitense, ma non bastava certo a cambiare il conto economico. SGS-ATES stentava a trovare un modello di business sostenibile, ma – come stava avvenendo in parallelo anche in Francia nel mondo Thomson – i suoi talenti stavano imparando metodi e lezioni che in breve tempo si sarebbero rivelati preziosi. […]

Il fatturato arrivò a 100 milioni all’inizio degli anni Ottanta (di cui 10 realizzati sul mercato americano), ma erano cifre che nascondevano la realtà di un’assoluta fragilità. SGS era entrata in rosso dalla crisi dei semiconduttori del 1970 e lo rimase per tutto il decennio. Gli impianti in Svezia e Germania andarono incontro a ripetuti blocchi delle attività. Ad Agrate scattò più volte il ricorso alla cassa integrazione. All’inizio degli anni Ottanta l’azienda era sostanzialmente fallita e sopravviveva grazie all’italianissimo meccanismo del «ripianamento perdite».

A fine anno, l’amministratore delegato della società andava a Roma nella sede dell’IRI e qui gli veniva consegnato un assegno equivalente, alla virgola, alle perdite dell’anno. Lo Stato teneva in piedi l’industria dei semiconduttori sia in Italia, sia in Francia e questo nonostante le aziende al loro interno avessero grandi potenzialità, grandi talenti e diversi prodotti che reggevano bene il confronto con la concorrenza.

Serviva una svolta.

L’Italia la fece per prima. La Francia completò il processo di aggregazione del proprio complesso ecosistema dei semiconduttori e si mosse a sua volta. Stavano nascendo le condizioni per dar vita veramente alla Silicon Europe sui due lati delle Alpi.

Copertina di Silicon Europe di Marco Bardazzi

Da “Silicon Europe” di Marco Bardazzi, Bur, 240 pagine, sedici euro.