Materie rareLa crisi globale dei chip e le sue conseguenze geopolitiche

La carenza colpisce e danneggia diversi settori industriali, dall’automotive al cosiddetto bianco. La gravità della questione è diventata un «problema di sicurezza nazionale» per la Casa Bianca che, come ricorda Gianclaudio Torlizzi nel suo libro pubblicato da Guerini, ha deciso di finanziare la produzione di semiconduttori in America per smarcarsi dalla dipendenza da altri Paesi

di Brian Kostiuk, da Unsplash

La gravità della carenza di semiconduttori si tradurrà, secondo Bank of America, in una perdita produttiva di automobili tra i 3,4 e i 3,8 milioni solo nel terzo trimestre 2021 che, sommati agli inevitabili strascichi nel quarto trimestre (dettati dai fermi produttivi in Cina per via delle politiche climatiche), porteranno la produzione globale ad attestarsi tra i 10-11 milioni di unità pari a un danno tra il 10-12% delle quantità prodotte in media annualmente. Nel complesso, secondo la società di consulenza Alix Partners, la carenza di chip produrrà al comparto auto nel 2021 un danno da 210 miliardi di dollari.

A pagare la crisi dei chip è anche il comparto del «bianco», come ha dimostrato l’annuncio di Electrolux di mettere gli operai dello stabilimento di Susegana in cassa integrazione per tredici settimane nel mese di settembre 2021. La carenza di chip penalizza anche le vendite di smartphone a livello globale, tanto che tra aprile e giugno 2021 sono stati venduti 316 milioni di telefoni cellulari in tutto il mondo, secondo la società di ricerca specializzata Canalys: si tratta di un aumento dell’11% su base annua ma di un calo del 9% rispetto alle vendite del primo trimestre. A questo punto diventa cruciale capire fino a quando la carenza possa durare.

Il più grande produttore di chip tedesco, Infineon, vede il 2023 come l’anno a partire dal quale si inizierà ad assistere a un allentamento della tensione sul lato dell’offerta di chip. Intervistato dal Frankfurter Allgemeine Zeitung, l’amministratore delegato Reinhard Ploss ha affermato che la fine del deficit di chip dipende non solo dalla domanda, ma anche dalla rapidità con cui sarà ampliata la capacità produttiva. La costruzione di nuovi impianti in cui i wafer di silicio possono essere trasformati in chip può richiedere – ha spiegato – fino a due anni e mezzo. Anche l’aggiornamento degli impianti esistenti richiederebbe fino a un anno. Nelle aree in cui dobbiamo attendere la produzione di nuovi semiconduttori, la carenza di chip potrebbe estendersi fino al 2023.

La gravità del problema non poteva non avere riflessi di natura geostrategica tanto da costituire un «problema di sicurezza nazionale», secondo quanto dichiarato il 12 aprile 2021 dal portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki. I chip, spiegherà successivamente lo stesso presidente Biden, «sono essenzialmente infrastrutture e noi dobbiamo costruire l’infrastruttura di oggi e non riparare quella di ieri». E così, l’8 giugno 2021, il Senato Usa approva lo Us Innovation and Competition Act, informalmente noto come il China Competition Bill, che prevede uno stanziamento complessivo da 52 miliardi di dollari in sussidi in favore della produzione di semiconduttori nel territorio americano. Un provvedimento, questo, che giunge a seguito dell’allarme sulla dipendenza dalle importazioni estere contenuto all’interno del report pubblicato nel giugno 2021 sullo stato dell’arte delle catene di fornitura (Building Resilient Supply Chain, Revitalizing American Manufacturing and Fostering Broad Based Growth), diretta conseguenza dell’ordine esecutivo 14017 del 24 febbraio 2021 varato dal presidente Biden di cui abbiamo già parlato a proposito delle batterie elettriche.

L’amministrazione Usa compie il salto di qualità a settembre 2021, quando il presidente Joe Biden annuncia di voler ricorrere al Cold War Defence Act per «costringere» i produttori di chip a rivelare i dati su produzione e scorte. Il provvedimento aprirebbe, inoltre, la strada al rimpatrio forzato delle produzioni.

Anche l’Europa sembra muoversi in tal senso. Il colosso Usa dei semiconduttori Intel sta facendo pressione su diversi Stati dell’Unione Europea per ottenere il sostegno finanziario al suo progetto di investimenti da 20 miliardi di dollari volto a costruire diversi nuovi impianti per la produzione di chip avanzati. Intel, in particolare, sarebbe alla ricerca di circa 1000 acri di terreno in cui sviluppare l’infrastruttura che farà da base a otto impianti di produzione di chip, i cosiddetti «fab», nonché del supporto finanziario. L’obiettivo sarebbe quello di portare in Europa una tecnologia di chip a 10 nanometri.

Andando nel dettaglio, il nanometro rappresenta l’unità di misura della lunghezza dei chip: equivale a un miliardesimo di metro, o anche a un milionesimo di millimetro. Si tratta, in sostanza, dell’attuale unità di misura della grandezza dei miliardi di transistor che costituiscono qualsiasi cpu presente in un chip. L’avvio del progetto Intel dovrebbe prevedere due fab e per un’operazione decennale il costo previsto è di circa 20 miliardi di dollari. L’investimento totale per tutto l’impianto potrebbe invece superare i 100 miliardi di dollari. Troppi, secondo alcuni osservatori, se si considera il rischio di aver perso la leadership di un comparto ormai fermamente in mano ai player asiatici come Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (tsmc) e Samsung.

Ma la corsa alla ricerca del miglior offerente è solo iniziata. La Corea del Sud ha annunciato un piano per investire 510.000 miliardi di won (451 miliardi di dollari) e una serie di ulteriori benefici fiscali per aumentare la competitività dei suoi produttori di chip, a partire da Samsung, che ha a sua volta ha annunciato 131.000 miliardi di won di investimenti. La rivale Tsmc, il più grande produttore di chip al mondo, sta invece negoziando la costruzione del suo primo impianto di chip in Giappone. Nell’aprile 2021 la società taiwanese ha annunciato un investimento da 2,8 miliardi di dollari nella città cinese di Nanchino, mentre il mese successivo ha iniziato la costruzione di un progetto di semiconduttori avanzato da 12 miliardi di dollari nello Stato americano dell’Arizona.

Ma quali sono esattamente i punti di debolezza della filiera statunitense, e aggiungiamo europea, nei confronti di quella asiatica nel comparto dei semiconduttori? L’industria globale dei semiconduttori ha attraversato un rigoroso processo di delocalizzazione, razionalizzazione e specializzazione regionale fin dagli anni Ottanta. Il mercato è di fatto controllato dalle aziende con sede negli Stati Uniti che detengono il 47% delle quote di mercato, seguite dalle rivali coreane (19%), giapponesi (10%), europee (10%), taiwanesi (6%) e cinesi (5%). Sul piano nazionale, dunque, gli Stati Uniti svettano sul resto degli altri Paesi, ma sul piano di macroaree l’Asia sta rapidamente recuperando terreno, arrivando a detenere oltre il 40% della quota globale.

Tuttavia, la questione che attiene alla sicurezza nazionale ruota attorno alla capacità manifatturiera produttiva (midstream). Se da un lato il giro d’affari del settore dei semiconduttori dal 1990 a oggi si è quasi decuplicato, passando da 50 miliardi di dollari agli attuali 400 miliardi di dollari, la capacità produttiva asiatica è passata dal 20% al 70% in ragione delle azioni di delocalizzazione intraprese negli anni dai colossi tecnologici americani.

Per contro, la produzione statunitense ed europea di chip è franata da quasi l’80%. In primo luogo, ad aver giocato un ruolo chiave nel passaggio da Occidente a Oriente è stata l’adozione del modello-fonderia (foundry) che dagli anni Duemila ha concentrato l’attività di midstream da trenta player ad appena tre, tra cui uno statunitense, uno taiwanese e l’altro sudcoreano.

Al fine di razionalizzare i costi, negli ultimi vent’anni un crescente numero di player di mercato ha iniziato a esternalizzare il processo produttivo in Asia, concentrandosi esclusivamente sulla parte a monte di design (upstream), tanto che gli usa detengono attualmente oltre il 50% del mercato mondiale sia per quanto riguarda l’Electronic Design Automation sia quella del Core Ip (le due aree che compongono l’attività di upstream).

da “Materia rara. Come la pandemia e il green deal hanno stravolto il mercato delle materie prime”, di Gianclaudio Torlizzi, Guerini editore, 2021, pagine 176, euro 19,50

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