Ridotta ai minimi termini, la discussione delle mozioni sulla guerra in Ucraina, conclusasi mercoledì alla Camera e straccamente trascinatasi ieri al Senato con il voto sul cosiddetto decreto Nato, si potrebbe riassumere così: meno male che Giorgia c’è.
È una considerazione triste, anzi tristissima, ma purtroppo realistica, considerando i rapporti di forza e (soprattutto) di debolezza politica, intellettuale e morale che gli equilibri parlamentari su questo voto hanno certificato.
Per un gioco di partecipazioni, astensioni e di votazioni per parti separate sono passate alla Camera le mozioni che sostenevano la resistenza militare dell’Ucraina contro la Russia (comprese quelle di Partito democratico e Azione-Italia Viva) e bocciate quelle cosiddette pacifiste di Sinistra, Verdi e Movimento 5 stelle. Al Senato è stata confermata la partecipazione di 1350 unità di personale militare, settantasette mezzi terrestri, due mezzi navali e cinque mezzi aerei all’attività della Very High Readiness Joint Task Force (Vjtf), per presidiare la sicurezza dell’Alleanza atlantica dopo l’attacco russo all’Ucraina.
Ma è evidente che la gran parte delle forze politiche erano più interessate a segnare un punto interno e a offrire una indicazione segnaletica al proprio elettorato potenziale e reale che ad assumere una vera responsabilità sulle scelte dell’Italia nello scenario ucraino. Le mozioni – tutte chilometriche – erano dei “segnaposto”, non degli impegni politici.
Basti vedere il modo in cui nella sinistra (in quella pacifista senza se e senza ma e in quella “ma anche” pacifista) ci si è inorgogliti per avere sventato una troppo frettolosa prosecuzione del programma di sostegno militare all’Ucraina. Ormai è tutto così ridicolo che si dà per scontato un trade off tra la difesa delle prerogative del parlamento italiano e quella della vita delle ucraine e degli ucraini dai missili di Mosca.
Dal punto di vista politico è lampante che due dei quattro poli presentatisi al voto il 25 settembre, quello di sinistra e quello (post?) grillino, se mai avessero vinto le scorse elezioni, avrebbero fatto dell’Italia il primo Paese fondatore dell’Unione europea condannato a disertare l’impegno a sostegno della democrazia ucraina contro la dittatura russa. Ed è altrettanto chiaro che a destra l’unità è oggi cementata solo dai vincoli esterni e dal potere preponderante di chi è tenuta a rispettarli – cioè Giorgia Meloni – non da un rigurgito di resipiscenza da parte di Berlusconi e Salvini.
Un governo Pd-Sinistra-Verdi-Più Europa e un governo Cinquestelle oggi non potrebbe tenere una posizione – per Volodymyr Zelensky e gli ucraini, contro Vladimir Putin e i russi – su cui nell’Unione europea solo Viktor Orban appare recalcitrante, ipocrita e doppiogiochista. E la desistenza di Salvini e Berlusconi dall’approccio cosiddetto pacifista è solo legata a una condizione di debolezza relativa, che i dati dei sondaggi rendono sempre più assoluta.
È altrettanto manifesto che nel Partito democratico l’ancoraggio a Kyjiv e alla Nato è forse l’ultimo segno della segreteria lettiana e che la fotografia più realistica del partito è quella emersa al Parlamento europeo, in cui su una mozione contro il terrorismo di guerra russo gli eletti del Nazareno si sono confusamente dispersi tra favorevoli, astenuti e contrari (come neppure il Movimento 5 stelle).
Rimane comunque il fatto che di tutti i poli elettorali che si sono confrontati alle scorse elezioni l’unico – a parte quello di Calenda e Renzi – che tiene l’Italia in linea con l’Unione e con la Nato è paradossalmente composto da tre forze politiche (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia), che fino a meno di un anno fa dichiaravano, senza timori né remore, che le sanzioni alla Russia dopo l’occupazione di parte del Donbas e l’annessione della Crimea erano illegittime e ingiustificate e che si poteva tranquillamente accettare la mutilazione politica e territoriale dell’Ucraina in nome dei buoni rapporti con l’amico Vlad.
Insomma, la situazione è sempre più grave e sempre meno seria. C’è di che rabbrividire, ma, pensando alle città ucraine in queste ore al freddo e al buio per i missili lanciati regolarmente da Mosca contro obiettivi civili, da Kherson a Leopoli, anche di che benedire la curiosa fantasia della storia politica italiana e le ragioni (fossero pure involontarie e casuali) che hanno portato Meloni – già orbaniana e putiniana – a rappresentare l’ostacolo e la barriera decisiva contro la capitolazione dell’Italia ai desiderata di Mosca. Questo, certo, per oggi. Per domani, chissà.