In un articolo su Il Foglio Giuliano Ferrara qualche giorno fa si interrogava su questo «clamoroso mistero» («come sono clamorosi i misteri percepibili da tutti nella loro pregnanza e nella loro evanescenza»): ciò che sta succedendo in Iran, cioè il destino di una rivoluzione che potrà riuscire o fallire, ma ha una portata e un obiettivo epocale, la fine della Repubblica Islamica, «ci scorre di lato, parallelo, come una notizia che non incontra davvero la nostra esperienza e visione delle cose».
Ma è davvero «misteriosa» la ragione per cui questa rivoluzione ci lascia così sbigottiti ma insensibili, impressionati ma non coinvolti dallo spettacolo di coraggio e di ambizione, dalla lotta per la libertà dei corpi e degli spiriti dilagata nelle strade di un paese, in cui non ci si fa scrupolo di decimare i manifestanti, che però bastonate e assassinii sembrano solo moltiplicare di numero e di forza?
Temo che la distanza, la sostanziale estraneità dell’intelligenza e del sentimento degli italiani dalla sorte di questa rivoluzione e dei suoi protagonisti abbia ragioni tutt’altro che misteriose, ma certamente dolorose, come un presagio di sventura che incombe più su di “noi” che su di “loro”.
La prima ragione è banale, ma implacabile: la demografia. In Iran l’età media della popolazione è di ventisette anni, in Italia di oltre quarantasei. In Iran solo il cinque per cento della popolazione ha più di sessantacinque anni, in Italia quasi una persona su quattro, il 23,5 per cento. L’Iran è perfettamente rispecchiato da quei giovani che scendono coraggiosamente in piazza, da quelle donne che vogliono vivere libere, da quella generazione che fa volare i turbanti dei mullah e si bacia nelle strade di Teheran.
L’Italia non è affatto rispecchiata da quelle foto e da quei video che i social network fanno rimbalzare in Occidente; rappresentano un mondo che per un verso non siamo più e per altro verso non siamo mai stati, perché mai in Italia il bigottismo politico-religioso ha assunto forme così efferate e violente e mai nella storia post-illuministica la teocrazia papalina ha fatto un uso così largo del boia come strumento di controllo sociale, in primo luogo delle donne.
Una società che invecchia è una società che si ripiega su sé stessa e in cui si accartocciano in una precocissima senilità politica anche le giovani generazioni. Mancano soprattutto loro all’appello di quelle sparute manifestazioni, che il Partito Radicale in una solitudine quasi monacale organizza ogni settimana davanti all’ambasciata iraniana.
La seconda è una ragione ideologica e vale, in modo diverso, sia per la sinistra che per la destra. La rivoluzione iraniana è irriducibile ai canoni rivoluzionari a cui il nostro paese è (appunto: senilmente) affezionato, che sono quelli anti-imperialisti e anti-capitalisti e a cui si dovette per altro la legittimazione del khomeinismo contro il dominio americano della Persia. La American way of life sfrontatamente rivendicata dai giovani iraniani attinge a un immaginario politico e ideale molto distante da quello delle mitologie resistenziali. Per quello che riguarda la destra, il conformismo anti-islamico, declinato in chiave anti-migratoria e nazionalista, non avvicina affatto i sovranisti a quelle piazze oceaniche di manifestanti, che sono un monumento vivente alla globalizzazione e alla laicità.
Anche il femminismo della sinistra e della destra italiana ha pochissimo a che fare con quello dei giovani e delle giovani iraniane.
A sinistra – non in tutta, ma in una larghissima parte di essa – la politica femminista è stata sublimata e pervertita in un dirittismo, che ha disincarnato il problema della libertà e del potere delle donne, riducendolo a una questione di rappresentazione e di riconoscimento e tutela sociale. Mentre in Italia e in genere nell’Occidente progressista il femminismo è ormai inglobato e surrogato dalle cosiddette “politiche di genere”, la rivoluzione iraniana ripropone radicalmente il corpo femminile, in quanto tale, come scandalo e istanza di liberazione.
A destra, invece, la questione femminile è rimasta nel limbo di un tradizionalismo etico-religioso più esibito che vissuto, ma comunque anti-illuministico. La “famiglia tradizionale”, ossessivamente evocata come modello e caposaldo costituzionale contro il riconoscimento giuridico delle famiglie omosessuali, non è stato solo un valore-feticcio.
È stato un modo per ribadire un sistema gerarchico di ruoli sociali nella famiglia e fuori dalla famiglia, che nella destra, non solo cattolica, si ritiene una necessaria trincea anti-relativistica. Il tutto senza dimenticare che la famiglia tradizionale non era un paradiso da Mulino Bianco, ma un inferno di discriminazione e di violenze, visto che in Italia le donne hanno acquisito una limitata autonomia giuridica solo nel 1919 e una piana uguaglianza di diritti nel matrimonio solo nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia resa possibile proprio dal divorzio.
Infine c’è una terza ragione, la più umiliante, per questa distanza morale e sentimentale dalla lotta dei giovani iraniani, che è la tragica minorità italiana rispetto a scenari di guerra e rivoluzione, che, come ha scritto Christian Rocca, costituiscono un’unica sfida politica.
L’asse tra Mosca e Teheran è la piattaforma della guerra contro l’Occidente e dei ricatti energetici globali. Gli iraniani che sfilano disarmati nelle strade sfidando il regime di Khamenei e gli ucraini che si difendono con le armi dall’aggressione di Putin raccontano la stessa storia, difendono gli stessi valori, indicano lo stesso nemico. Ed è lo stesso pacifismo, che fa vedere a moltissimi italiani nel sostegno alla resistenza ucraina un pericoloso avventurismo militare, a non fare loro riconoscere nelle piazze iraniane l’avamposto della nostra libertà e dei nostri diritti universali.