Tra toni (eccessivamente) trionfalistici e scetticismi talvolta pretestuosi, sui media l’annuncio degli Usa sulla fusione nucleare sta creando più divisioni che dibattiti costruttivi. Da una parte, la scienza ha toccato con mano una fonte di energia che potrebbe garantire elettricità abbondante, stabile, a zero emissioni e senza scorie radioattive. Dall’altra, gli esperti hanno davanti una creatura in fase embrionale che – nella migliore delle ipotesi – avrà bisogno di decenni per raggiungere gli obiettivi di uso commerciale (e per avere effetti concreti sulle nostre vite).
Dunque, prima di approfondire il rapporto tra la fusione nucleare e le varie tematiche ambientali, è necessaria una premessa che dovrebbe essere scontata: il risultato del Lawrence Livermore National Laboratory è (e sarà) totalmente irrilevante nella lotta alla crisi climatica. Un’emergenza attualissima, caratterizzata da sfide e target incompatibili con lo sviluppo su larga scala della fusione nucleare, che, rispetto alla già consolidata fissione, genera energia unendo nuclei leggeri al posto di spezzare i nuclei di atomi pesanti.
Parlare di rivoluzione energetica, di elettricità accessibile a tutti e di un mondo non inquinato, più democratico e giusto è fuorviante e affrettato. La neutralità carbonica al 2050 e i vari obiettivi climatici intermedi verranno raggiunti solo grazie all’abbandono delle fonti fossili, allo sviluppo delle rinnovabili e a un ripensamento radicale dell’attuale sistema produttivo.
L’esperimento statunitense non va però trattato come una distrazione da ciò che dobbiamo fare oggi a livello di mitigazione e adattamento alla crisi climatica. È una novità di enorme importanza, e guardare oltre può aiutarci anche a comprendere meglio i bisogni urgenti di un pianeta costantemente sotto pressione. La potenziale diffusione delle centrali a fusione, infatti, potrebbe comportare un minor utilizzo (e una distribuzione più equa) delle risorse naturali e una decarbonizzazione profonda della società umana. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Consoli, capo della task force INER (Research and Technologies for Inertial Fusion) presso l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea), che vanta l’unico impianto laser italiano (laser ABC) da utilizzare per studi sulla fusione nucleare a confinamento inerziale.
L’esperimento annunciato questa settimana non risolverà la crisi climatica e la povertà energetica, ma rimane un passo avanti degno di nota: perché?
«Non era scontato arrivare a questo punto. Il laser Nif (National ignition facility), costruito più di quindici anni fa, sembrava avesse fallito. Esserci riusciti significa che è possibile avere un guadagno maggiore di uno. Cosa significa? Irradiare una sfera con dei laser e produrre più energia da fusione rispetto a quella dei laser che l’hanno irraggiata. C’è ancora tantissimo da fare: il bilancio energetico non è sufficiente. Il guadagno ora è di 1,5, e deve essere almeno cento volte più ampio. Bisogna produrre almeno cento volte l’energia che si ottiene adesso. Nel 2015, però, l’energia tirata fuori era cento volte meno rispetto a ora: questa è la notizia importante. C’è stato un incremento di guadagno di un fattore cento. Adesso serve un altro cento: non è così facile e non si può dire che in sette anni lo faremo, perché più si cresce più bisogna migliorare la tecnologia dei laser».
In che modo, nel lungo periodo, la fusione nucleare avrà ripercussioni positive sul clima e l’ambiente?
«Aiuterà sicuramente a livello di decarbonizzazione perché non produce anidride carbonica, ma farà anche molto altro: è questo il bello. Il problema non sono solo la CO2, l’effetto serra, la fusione dei ghiacciai, eccetera. Le difficoltà attuali sono anche dovute a una distribuzione diseguale delle risorse naturali. E poi l’energia elettrica costa tantissimo. Il reattore a fusione sarà il Santo Graal per il seguente motivo: il combustibile si ottiene dall’acqua, l’acqua è ovunque. E non parliamo necessariamente di acqua potabile. La quantità di energia in un litro di acqua è enormemente più alta della quantità di energia in un litro di benzina. Grazie alla fusione si utilizzeranno meno risorse, e queste risorse saranno distribuite in modo più equo nel mondo».
Poi c’è anche il tema della sicurezza.
«Nelle centrali a fusione non ci saranno le scorie come nelle centrali a fissione. Le prime sono più sicure. La fusione ha bisogno di tanta energia per essere innescata: se noi togliamo quella quantità di energia, semplicemente non accade niente. È il motivo per cui una centrale a fissione ha bisogno di materiali che servono ad assorbire neutroni e ad evitare reazioni a catena, ma nella fusione non è così. Non siamo ancora arrivati all’obiettivo finale perché, per ora, ci vuole troppa energia per farlo, ma in futuro se ne produrrà molta di più».
Quali sono le prossime sfide?
«Il laser utilizzato negli Usa è di quindici anni fa e può “sparare” più o meno due volte al giorno. Per ottenere una centrale a fusione è necessario avere laser che sparano in maniera continua, che abbiano una maggior frequenza di ripetizioni. Dalla dimostrazione bisogna poi arrivare al resto, a un apparato che sia commercialmente adeguato. Adesso costa tutto tanto perché sono tutti prototipi. In futuro andremo a ottenere qualcosa di ottimizzato, di meno costoso e di riproducibile in scala. Oltre ai laser, va specificato, servono anche bersagli più efficienti e ottimizzati. I bersagli possono essere migliorati nella struttura, nella forma e nei materiali, in modo tale che ci sia più energia che venga trasferita al bersaglio dal laser».
Come sarà una centrale a fusione?
«Sarà come una centrale a fissione: cambia semplicemente la reazione e tutto ciò che serve per innescarla. Alla fine si produrrà sempre energia termica che riscalderà l’acqua, farà partire la ventola e la turbina. E infine si creerà energia elettrica. Cambiano il combustibile e il metodo per accenderlo».
Quanto tempo ci vorrà per arrivare a questo punto?
«Ci sono delle motivazioni tecnologiche che portano a dire che passerà un po’ di tempo: non meno di qualche decina d’anni come minimo, ma non stiamo sicuramente parlando di un secolo. I numeri a una cifra che si leggono in giro non sono pensabili».
Serve uno sforzo globale per farcela. Sta succedendo?
«Il risultato degli americani è stato conseguito perché loro investono seicento milioni di dollari l’anno e hanno un macchinario da tre miliardi e mezzo di dollari. Noi non abbiamo fondi da nulla, se non da un finanziamento – fornito da Eurofusion – da cinquecento milioni di euro totali, divisi per sette, otto o dieci gruppi. Gli Usa da soli non possono farcela: hanno bisogno del nostro aiuto, che già stiamo dando perché pubblichiamo risultati importanti sulle principali riviste scientifiche. Servono strutture laser più potenti che consentano il salto, e ovviamente più personale».