I professionisti dell’antiliberismoLo statalismo autoritario degli ayatollah e la nostra ossessione per una parola che non c’è

L’ottanta per cento dell’economia dell’Iran è pianificata a livello centrale e passa dalle mani del potere dei mullah e dei pasdaran. Pensare che possa esistere un neoliberismo teocratico non ha senso, anche perché in italiano non si dice così

AP/Lapresse

A volte ritornano, è il titolo di un famoso romanzo di Stephen King che è diventato un tormentone, e che parla di fantasmi. È appunto una sorta di fantasma quel «neo-liberismo» che in Italia torna non «a volte» ma abbastanza spesso. Adesso, ad esempio, in un saggio sulla rivista Il Mulino dove si analizzano le proteste in Iran in chiave di rivolta contro «anni di politiche di stampo neoliberista e repressione». Ma l’Iran può essere definito un Paese «neo-liberista»?

In Iran circa il sessanta per cento dell’economia iraniana è pianificata a livello centrale. Secondo la Banca Mondiale, il 17,5 per cento del Pil è costituito dal petrolio, che fornisce il sessanta per cento delle entrate statali, e che è monopolio della National Iranian Oil Company, appartenente al cento per cento allo Stato.

È vero che, dopo l’ondata di nazionalizzazioni seguite alla rivoluzione, le privatizzazioni del 2005-10 hanno ridotto il peso dello Stato sul Pil dall’ottanta al quaranta per cento. In questo senso si potrebbe paradossalmente dire che lo Stato iraniano ha subito un ridimensionamento «neoliberale», ma nello stesso senso in cui sui potrebbe dire che una persona costretta a dimagrire da trecento a centocinquanta chili per chi lo conosceva prima è diventato «secco da far paura».

Attenzione, però, che una caratteristica peculiare dell’economia iraniana è la presenza di grandi fondazioni religiose, i cui bilanci complessivi rappresentano più del trenta per cento della spesa del governo centrale.

Si stima inoltre che il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche controlli circa un terzo dell’economia iraniana attraverso filiali e trust. Si parla di legami con oltre cento aziende e di un fatturato annuo superiore ai dodici miliardi di dollari, in particolare nel settore delle costruzioni. Il ministero del Petrolio assegna alle Guardie miliardi di dollari in contratti senza appalto e in grandi progetti infrastrutturali.

Incaricato del controllo delle frontiere, il Corpo mantiene una sorta di monopolio del contrabbando, che costa alle aziende iraniane miliardi di dollari ogni anno, e che è incoraggiato dal sistema di sussidi generalizzato, con vasti controlli sui prezzi di cibo ed energia. Ma i Pasdaran gestiscono anche la società di telecomunicazioni e le cliniche per la chirurgia oculare con il laser; fabbricano automobili; costruiscono ponti e strade; sviluppano giacimenti di petrolio e gas.

Si potrebbe dunque dire che l’economia in Iran è ancora per oltre l’ottanta per cento sotto il controllo dello Stato. L’intreccio tra religiosi, milizia religiosa, istituzioni e economia rappresenta un sistema di monopoli armati che non c’entra niente con il neo-liberismo. E se le fondazioni religiose sono una caratteristica dell’Iran, il passaggio dell’economia dallo Stato a potentati militari è comune a vari Paesi che non a caso con l’Iran hanno stretti legami: dal Venezuela a Cuba passando per la Russia di Putin o per la Cina di Xi.

Anche a Cuba è in corso un ridimensionamento del ruolo dello Stato accompagnato da precarizzazione e passaggio di settori produttivi ai militari. E anche lì da un paio di anni si susseguono proteste sempre più dure. Pure a Cuba come in Iran è in corso una rivolta contro il neo-liberismo? Dipende ovviamente dalla definizione che si dà di neo-liberismo. Il direttore della rivista il Mulino Mario Ricciardi spiega che «nella letteratura recente neoliberalismo è il nome che è stato dato a una tendenza globale del capitalismo (non del mercato) che subordina – riducendole in modo sostanziale – le esigenze della giustizia sociale e della tutela dell’ambiente a quelle della crescita».

Un duro critico del neo-liberalismo è anche Vittorio Emanuele Parsi, che nel suo recente saggio Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale ha contrapposto il liberalismo doc a neo-liberalismo, proponendo un ritorno a Roosevelt e Churchill. Il passaggio dal primo al secondo, avvenuto con la fine della Guerra Fredda, avrebbe fatto aumentare diseguaglianze, incertezze e povertà, fornendo la base per la crescita di populismo e sovranismo: risposte sbagliate che hanno aggravato il problema, come dimostra il fenomeno Trump.

Il libro però ricorda che si è aperto anche lo spazio per un ritorno massiccio dell’autoritarismo, la cui forma più compiuta è in quello che Parsi definisce il «capitalismo di concessione cinese». Quindi, si può certamente pensare peste e corna del neo-liberalismo, ma non per questo fare di tutta l’erba un fascio.

Assieme a fenomeni che come appunto quelli di Cina, Russia, Iran, Venezuela o Cuba non si basano sulla «idolatria del mercato», ma su un incesto mafioso tra governanti autoritari, privati collusi e prestanome di militari e servizi segreti, dove al taglio di sussidi o garanzie non corrisponde affatto un aumento di libertà sindacali, associative o di informazione, che però in un sistema «neoliberale» dovrebbero essere garantiti.

A proposito di liberalizzazione, potremmo ricordare che ad esempio in Cina tra 1995 e 2001 le imprese a controllo statale scesero da 1,2 milioni a 468mila, e i dipendenti statali dal cinquantanove al trentadue per cento. Ma banche, energia, telecomunicazioni, trasporti restano saldamente statali. Ci sono poi le joint-ventures tra entità statali e privati: in genere, ma non sempre, stranieri. Frequenti nell’industria automobilistica, in logistica e in agricoltura. Ci sono i privati puri; che però dipendono pesantemente dallo Stato per il credito, e c’è il dubbio che i più importanti di loro siano prestanome delle Forze Armate. Ci sono le imprese collegate ai governi locali, specie nelle infrastrutture. E c’è il laogai: universo concentrazionario con almeno 250mila detenuti, da cui verrebbe ad esempio almeno un quarto del tè.

Sicuramente, la precarizzazione è diffusa, e anche parlare di controllo dello Stato non sarebbe del tutto corretto, se si dà al termine un senso occidentale. C’è piuttosto una consorteria che occupa allo stesso modo istituzioni e economia, confondendo i ruoli in modi inestricabili.

In effetti, definire «neoliberali» le varianti del capitalismo di concessione sarebbe più o meno come dare del «comunista» a ogni forma di dirigismo. Cioè, dire che il regime degli ayatollah è «neo-liberale» per il fatto che il novanta per cento dei rapporti di lavoro è temporaneo non è troppo diverso che definire «comunisti» Mussolini e la Democrazia cristiana per il fatto che tra la crisi del 1929 e le privatizzazioni degli anni Novanta attraverso l’Iri l’ottanta per cento del settore bancario italiano era in mano allo Stato.

Questo, sul «neo-liberalismo». Ricciardi e Parsi usano la parola, che è la traduzione letterale del termine inglese. Il saggio, però parla di «neo-liberismo». Appunto, siccome «a volte ritornano», possiamo anche noi tornare a quanto già scritto nel febbraio del 2020, quando il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador twittò «Colpa del neo-liberalismo» per spiegare l’omicidio di Fátima Aldrighett: una bambina di sette anni il cui cadavere era stato ritrovato in un quartiere popolare a sud-est di Città del Messico dentro a un sacchetto di plastica, e con atroci segni di torture. «No, signore, a Fatima non le hanno rubato un portafogli pieno di soldi per mangiare. Non è colpa del modello neoliberale. Non è colpa della povertà. È colpa della disumanizzazione e i suoi commenti non aiutano», gli risposero sui social.

Era una polemica in contemporanea a simili «allarmi» italiani, ed avevamo allora ricordato che, in realtà, in italiano il neo-liberismo non dovrebbe esistere. La distinzione cui Parsi fa riferimento è infatti quella tra il liberalismo come dottrina politica generale ispiratrice di partiti, e il liberismo come pratica di governo basata sul minor intervento possibile dello Stato nella gestione dell’economia. Che è poi un concetto astratto, da tradurre volta per volta in termini concreti. Ad esempio: la Brexit è stata liberista nel senso che ha tolto di mezzo le normative europee, o anti-liberista nel senso che ha frapposto al libero commercio nuove barriere doganali?

In concreto il liberismo è un aspetto del liberalismo: non il solo, visto che oltre alla libertà di azione economica ci sono anche la libertà di azione politica, la libertà di coscienza, più in generale la difesa dell’autonomia dell’individuo rispetto allo Stato.

Storicamente i partiti e i governi liberali storici hanno però spesso preso posizioni che comportavano invece un intervento dello Stato: dai liberali britannici che a inizio ‘900 sposarono quella battaglia di Henry George per la tassa unica sulla terra ancora ricordata nell’inno del partito; a Giolitti che promosse la nazionalizzazione di ferrovie e assicurazioni sulla vita.

Benedetto Croce fu un grande teorico del liberalismo italiano che dopo essere stato ministro di Giolitti ne difese l’operato nei suoi libri di Storia. Luigi Einaudi fu un altro grande teorico del liberalismo italiano che invece rispetto allo statalismo giolittiano era critico, pur se poi alla Costituente propose l’intervento dello Stato con un sistema di anti-trust, appunto per tutelare la concorrenza contro la formazione di monopoli.

Per Croce il liberalismo poteva essere separato dal liberismo: nel senso che il liberalismo era per lui un metodo di governo volto alla ricerca della libertà, e che volta per volta per difendere la libertà poteva anche essere necessario far intervenire lo Stato in economia. Einaudi ribatteva che senza pluralismo economico il pluralismo politico diventa impossibile. Considerazione sempre valida, anche se la condizione necessaria può non essere sufficiente, come dimostra la recente voga di governi autoritari e liberisti allo stesso tempo: dal Cile di Pinochet alla Cina. O, per lo meno, con l’immagine di liberisti.

Abbiamo ricordato come la Cina possa essere definita piuttosto un «capitalismo di concessione», ma anche Pinochet mantenne sempre il monopolio di Stato sul rame della Codelco, prima fonte di entrate per lo Stato in generale e per le Forze Armate in particolare. Proprio Pinochet, anzi, volle che una quota fissa dei proventi della Codelco andasse in spesa militare.

Se ricordiamo ancora che per Einaudi lo Stato poteva benissimo intervenire proprio per difendere il pluralismo economico, ci accorgiamo che in realtà le due posizioni non sono contrapposte in modo così radicale. Il famoso dibattito partì nel 1928 con una recensione di Einaudi ad alcuni scritti di Croce, e dunque acquisì un tono larvatamente polemico. Ma i due comunque si stimavano, erano in contatto epistolare intenso, e dopo il fascismo sarebbero stati entrambi tra i promotori del ricostituito Partito Liberale Italiano.

Ma la stessa distinzione logica che la lingua italiana ha espresso con la coppia di termini liberalismo-liberismo altre lingue la hanno espressa con altre coppie di termini. In inglese, ad esempio, il «liberal» è un liberale in senso crociano. Se si vuole specificare «liberista» si deve aggiungere: «classical liberal», o «free market liberal». In spagnolo, e specie in America Latina, i partiti liberali storici erano caratterizzati dall’anticlericalismo, dalla lotta per la democrazia e anche da richieste di ridistribuzione, più che dal liberismo.

Chi ha letto Cent’anni di solitudine ricorderà che i tre punti per cui combattevano i liberali di Aureliano Buendía nella guerra civile colombiana erano riforma agraria, separazione tra Stato e Chiesa, pari diritti tra figli legittimi e naturali. Per questo il «nuovo» liberalismo di provenienza europea e nord-americana che sull’onda della Scuola di Chicago e della Scuola Austriaca insisteva sulla lotta allo statalismo fu definito «neo-liberalismo». Che è un calco da un inglese «neo-liberalism» che si afferma in particolare dagli anni Cinquanta. Ma dopo l’esperienza di Pinochet il termine fu molto usato in senso critico e polemico in America Latina, e da lì attraverso circuiti terzomondisti rimbalzò nella sinistra mondiale.

Non sappiamo in realtà se perché il liberismo di Einaudi era in realtà più aperto all’intervento dello Stato che non il «neo-liberalism» o per fattori di moda, ormai anche in ambienti accademici italiani si è iniziato a usare «neo-liberalismo» con una sfumatura diversa da «liberismo». Si parla pure di un «ordo-liberalismo» di derivazione tedesca che accetta un intervento statale nell’economia non per correggere le ingiustizie del mercato ma per darvi regole, che è di fatto l’ideologia della Ue, e che forse è la variante più vicina alle posizioni che Einaudi difese alla Costituente.

Ma «neo-liberismo», modesta proposta, è forse un tipo di termine che sarebbe il caso di evitare. Non è traduzione letterale e crea confusione, nel momento in cui mette assieme e confonde i ragionamenti elevati del dibattito Croce-Einaudi con toni chiassosi da populismo latinoamericano.

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