Potenza murata Il fattore geopolitico più importante per capire la Cina è la percezione della sua auto-centralità

Nel suo ultimo testo, uscito postumo per Egea, l’orientalista Franco Mazzei racconta il gigante asiatico oltre le frequenti semplificazioni: l’immensità tridimensionale del «Dragone», che non è un mostro ma l’incarnazione di uno spirito creatore

Dragone cinese
Foto di Jéan Béller su Unsplash

Dal punto di vista strettamente geopolitico, il fattore più importante è la percezione della centralità che i cinesi hanno del proprio Paese, da cui deriva il sinocentrismo: una visione del mondo con al centro la Cina. Una chiara manifestazione di ciò è l’auto-denominazione della Cina come Zhongguo, «Paese del Centro [del mondo]». Ma che cos’è il mondo di cui la Cina si considera il centro? La storiella dei fratelli Ganesha e Kartikeya, due giovani divinità indù, ci può essere d’insegnamento a questo riguardo.

In genere, la prima immagine che viene in mente pensando alla Cina è la sua immensità. Eppure la Cina è più piccola del Canada. L’immensità della Cina è tridimensionale: certamente è immensa per territo- rio (9.572.900 km, quasi quanto tutta l’Europa), ma anche per popolazione (più di un miliardo e trecento milioni di abitanti) e per la sua storia (oltre quattro millenni). In breve, l’immensità della Cina riguarda tutti e tre gli elementi fondanti di ogni civiltà: lo spazio (la geografia), l’uomo (la demografia) e il tempo (la storia).

Se l’aspetto più evidente della civiltà sinica è l’immensità in questa triplice dimensione, il fattore geostorico più importante della Cina è indubbiamente lo sviluppo ortogenetico, cioè uno sviluppo rettilineo, lineare, continuo e largamente autonomo senza interruzioni durature nel corso della sua storia multi-millenaria.

Tra le grandi civiltà, quella cinese non è la più antica ma è l’unica ad avere avuto uno sviluppo senza indicative cesure di tipo territoriale, antropologico, linguistico, culturale. Si pensi alla continuità di fattori come il confucianesimo, le istituzioni sociali e politiche, la possente struttura statale che è incredibilmente resiliente anche se morfologicamente diversificata, lo stesso sistema di scrittura che continua da millenni ad essere analogico (basato su ideogrammi) e non alfabetico (cioè analitico come quello usato in Occidente).

Per contrasto, si pensi alla discontinuità tra l’antico Egitto dei Faraoni e l’Egitto di oggi: diversa la lingua, diversa la scrittura, diversa la religione, diverse le istituzioni sociali ecc. Oppure si pensi alla discontinuità quasi strutturale della grande civiltà indiana, al punto che qualche storico preferisce parlare di civiltà indiane: prima indù, poi buddhista, islamica, quindi sotto il dominio britannico.

È appena il caso di aggiungere che lo sviluppo ortogenetico è stato favorito dal relativo isolamento geografico della Cina rispetto alle altre civiltà eurasiatiche. Certamente il mondo sinico confina con la civiltà dell’India, la quale, come abbiamo appena detto, ha avuto uno straordinario sviluppo discontinuo e diversificato. In ogni caso, la catena dell’Himalaya si è rivelata una barriera difficilmente superabile, rendendo molto difficili i rapporti tra queste due grandi civiltà eurasiatiche. Alcuni studiosi hanno definito la Cina una «potenza murata» proprio per il suo sviluppo ortogenetico e largamente autonomo.

Dal punto di vista strettamente geopolitico, il fattore più importante è la percezione della centralità che i cinesi hanno del proprio Paese, da cui deriva il sinocentrismo: una visione del mondo con al centro la Cina. Una chiara manifestazione di ciò è l’auto-denominazione della Cina come Zhongguo, «Paese del Centro [del mondo]». Ma che cos’è il mondo di cui la Cina si considera il centro? La storiella dei fratelli Ganesha e Kartikeya, due giovani divinità indù, ci può essere d’insegnamento a questo riguardo.

Ganesha è simpatico, umile e saggio, ha la testa di elefante e come servo e veicolo un topo; l’altro, Kartikeya, è forte, bellicoso e ha come veicolo il pavone. Un giorno, i genitori decisero di dare un premio a chi dei due avrebbe fatto per primo il giro del mondo. In un lampo Kartikeya partì sul dorso del suo pavone e fece il giro del vasto mondo, superando sterminati deserti, catene montuose e mari sconfinati. Ganesha, col suo topolino, invece, fece un giro intorno a sua madre. Quando Kartikeya tornò dal suo lungo viaggio, vedendo il fratello seduto placidamente vicino alla Madre, si proclamò vincitore. «Ma no, fratello», intervenne Ganesha. «Ti sto aspettando da un sacco di tempo. Tu hai fatto il giro del mondo; io ho fatto il giro del mio mondo, e il mio mondo è la mamma».

Naturalmente ognuno può scegliere il mondo che vuole; il problema sorge quando si pretende d’imporre il proprio mondo agli altri: pretesa geopolitica basata sull’etnocentrismo e sul desiderio di potenza, fattori peraltro politicamente comprensibili ma pericolosi. La pretesa (largamente realizzata) d’imporre concretamente il proprio mondo agli altri l’ha avuta nell’età moderna l’Europa, poi ripresa dagli Stati Uniti: ritenendoci portatori di un modello universale, noi occidentali, grazie al potere delle armi, della ricchezza e della scienza, abbiamo imposto a tutti i popoli la nostra egemonia non solo politica ed economica ma anche culturale.

A proposito di questa pretesa, nello stesso Occidente non sono mancate, da parte d’intellettuali, voci discordanti. A questo riguardo, particolarmente rilevante nel campo delle relazioni internazionali è la posizione assunta da Huntington secondo cui l’Occidente sarebbe unico e nient’affatto universale, semmai «eccezionale» per cui andrebbe protetto conto tutto e contro tutti.

Per riprendere il discorso sulla centralità della Cina, ci siamo già soffermati sull’uso improprio di Paese di Mezzo invece di Paese del Centro. Un altro uso inesatto, molto diffuso in Italia con riferimento alla Cina (ma questo è solo una simpatica sciatteria linguistica senza implicazioni geopolitiche), è l’espressione «Dragone», che probabilmente è una traduzione meccanica, un falso amico dell’inglese dragon, che in italiano è tradotto normalmente con «drago».

La parola «dragone» in italiano ha molti significati. Eccone alcuni: un mostro favoloso spesso assunto come personificazione del demonio, un tipo di pesce o, ancora, un soldato di un corpo militare la cui origine si collega agli archibugieri a cavallo italiani e il cui nome deriva dallo stendardo su cui anticamente era rappresentato un dragone, che fu già il simbolo delle coorti romane nei secoli II-V d.C.

Tutt’altra cosa è il drago cinese, Long, che è l’incarnazione di Yang, che, insieme a Ying, è una delle due forze opposte ma interdipendenti che danno dinamismo al Tao, il principio ontologico cardine del pensiero cinese. Pertanto, il drago indica lo spirito fecondo e creatore, maschile, e quindi il lignaggio genetico familiare, che, secondo alcuni ricercatori, concettualmente richiama la nozione latina di genius, lo spirito della familia dell’antica religione romana, che negli altarini di casa era rappresenta- to appunto da un serpente. La controparte femminile del drago cinese è la fenghuang, ossia la fenice cinese, simbolo di grazia, di virtù e di buona fortuna.

Comunque sia, a parte le sbavature linguistiche, rimane da risolvere un problema cruciale riguardante la centralità come primario fattore geopolitico della Cina: il mondo nel cui centro si trova la Cina è il mondo particolaristico, soggettivo ed emozionale del mite Ganesha o è il mondo universalistico, oggettivo e razionale del bellicoso Kartikeya? O qualcosa di ancora diverso? Questo è il grande nodo della Cina e anche della geopolitica contemporanea nel suo insieme.

L’insospettabile convergenza, Franco Mazzei, Egea, 224 pagine, 22 euro

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