Stefano De Martino è un napoletano naturalizzato televisivo, già ballerino di Amici, attualmente famoso – sebbene conduca programmi – soprattutto per aver figliato con Belen Rodriguez, la donna il cui nome tutti accentano sbagliato e la più stratosferica strafiga mai comparsa alla televisione italiana.
Junot Díaz è un dominicano naturalizzato statunitense, già premio Pulitzer per “La breve favolosa vita di Oscar Wao”, (ex?) scrittore, attualmente famoso soprattutto perché all’inizio del MeToo si sparse la voce che era uno schifoso maniaco e, sebbene tutte le accuse si siano dimostrate deliranti, la sua reputazione non s’è mai ripresa.
Negli ultimi giorni Díaz è apparso su Semafor, testata on line dal nome improbabile (da che pulpito, direte voi) fondata da Ben Smith, che per metterla su ha mollato il suo posto al New York Times, dove si occupava di media e aveva, tra le altre cose, compiuto la meritoria opera di decostruire la credibilità di Ronan Farrow.
Anche prima del MeToo, anche prima del ricatto allora-non-credi-alle-donne, quando una storia distruggeva una reputazione poi in pochi si occupavano di andare a vedere cosa fosse successo dopo, come si fossero assestate le cose dopo un’accusa infondata. Da sempre, ogni accusa è un titolo in prima pagina e ogni derelitto che viene scagionato è un trafiletto a pagina 34 – figuriamoci quando, se provi a esaminare i fatti, sei sessista.
Che le storie che riguardavano Díaz fossero folli lo si capiva da dettagli più o meno piccoli. Dal comitato del Pulitzer, che prima di radiarlo indaga e non trova niente, e questo in anni così ubriachi che l’Academy radiava Polanski per un reato sessuale del 1977, avendogli però dato un Oscar nel 2003 (quando studieranno questi decenni, gli storici codificheranno la sindrome della memoria intermittente).
Ma anche dalle stesse accusatrici. La mia preferita era quella che diceva che la violenza subita da Díaz era verbale: a una cena, le aveva urlato in faccia «Rape», stupro. Tu leggi e dici beh, non credo nel concetto di violenza verbale, ma certo non è bello urlare a una sconosciuta a una cena che la stupri. Poi leggi il resoconto completo della serata e cadi dalla sedia.
La signora, all’epoca in procinto di esordire come scrittrice, aveva portato speranzosa le bozze del suo libro a una cena data in onore di Díaz, ma non gliele aveva consegnate: ci era rimasta molto male quando lui non se l’era filata per parlare con uno scrittore famoso (di certo perché quello era più famoso, mica perché era più interessante: l’inferno non conosce furia pari a quella di un anello basso nella catena alimentare).
A un certo punto durante la cena (badate bene: questa è la versione di lei, quindi quella dalla quale lui esce al suo peggio e lei al suo meglio) lei si lamenta perché il New Yorker non ha voluto un suo racconto, la tavolata parla di statistica, lei parla di rappresentazione delle minoranze, e Díaz dice «forse non sai come funziona la statistica: sarebbe come dire che lo stupro non esiste perché non sei mai stata stuprata».
Quella che la signora definisce «virulenta misoginia» è, dunque, aver usato la parola stupro in sua presenza. Nelle stesse settimane ci sono altre due signore che si lamentano di Díaz. Una dice che, a un incontro pubblico, Díaz ha risposto con «uno sbotto di rabbia misogina» a una sua domanda sul protagonista sociopatico del suo romanzo. C’è una registrazione, e chiunque la ascolti obietta che non sembra affatto arrabbiato. La signora obietta che dalla registrazione non si percepisce il linguaggio del corpo. Inserite qui un mio sospiro esasperato.
La terza signora è quella che ha l’accusa più concreta: Díaz l’ha baciata con la forza. È la primavera del 2018. La signora dice che è successo quando lei era una studentessa ventiseienne, quindi sette anni prima. Ne passano altri quattro e mezzo prima che Ben Smith si applichi al caso e convinca Díaz a raggiungerlo da McNally, la libreria fighetta di Soho.
Díaz arriva col capellino che usano quelli che non vogliono farsi riconoscere: sono quattro anni che non entra in una libreria, sono quattro anni che non scrive. Non dice niente di rilevante, ma quel che è rilevante è che, con quattro anni di ritardo, qualcuno ha fatto quel che andava fatto subito: chiedere alla commissione d’indagine costituita dai responsabili del premio Pulitzer come mai l’avessero discolpato. «Le indagini hanno rivelato che si trattava di un bacio su una guancia».
Uno dei più clamorosi danni inferti dal MeToo alla conversazione collettiva è la convinzione che, se dici che un’isterica in cerca di pubblicità è un’isterica in cerca di pubblicità, tu stia scusando gli stupratori e alimentando il loro brodo di coltura. Nessuno ti direbbe che, svelando che qualcuno ha finto gli rubassero la macchina per incassare i soldi dell’assicurazione, stai incoraggiando i furti d’auto, no?
Quello che stai facendo, svelando che il povero Díaz sarà pure un cafone con un brutto carattere, ma le tre signore sono tre esibizioniste che sperano il vittimismo faccia per le loro carriere quel che le doti letterarie non possono fare, è dire: smettetela di farvi distrarre. Smettetela di andar dietro alle mode e concentratevi sui veri reati. Smettetela di far finta di credere che essere maleducati e essere stupratori sia parimenti grave.
“La conferenza stampa” è un’ideuzza di Giovanni Benincasa, sta su RaiPlay: un personaggio pubblico viene intervistato da un’aula piena di decine di liceali, che fanno domande più o meno pretestuose, più o meno fesse, più o meno personali.
Nella prima puntata c’è Stefano De Martino. A un certo punto un ragazzo gli chiede cosa bisogna fare se tu sei gentile tutta sera, paghi la cena, e poi lei non te la dà. De Martino non fa monologhi dolenti sul consenso, non s’indigna per il sessismo implicito nella domanda, non fa predicozzi. De Martino ride: e che fai, gliela strappi? E illustra con perfettissima allegoria la questione: c’è il rischio d’impresa, investi e non sai se ne ricaverai un guadagno. Tutti questi anni monotematici sui rapporti tra i sessi e la violenza e la sopraffazione e lo stupro su appuntamento, e tu guarda: un ballerino sa dirlo meglio di molti Pulitzer.