Se le opposizioni varie, e soprattutto eventuali, non si daranno una mossa fin dalle elezioni regionali di febbraio saranno destinate a vagare come anime morte e farsi sfilare anche la Costituzione da sotto il naso (almeno nella parte che riguarda l’assetto istituzionale). Riceveranno da qui alla fine della legislatura due pugni in rapida successione, un classico uno-due fatto da semipresidenzialismo e autonomia differenziata da stendere al tappeto pure un toro. E a loro che sono pugili suonati basta anche meno.
Non male il semipresidenzialismo, non altrettanto il secondo, l’autonomia regionale nella versione nordista voluta dal ministro Roberto Calderoli – su diktat dei governatori Luca Zaia, Massimiliano Fedriga, Attilio Fontana – che ha già inviato il disegno di legge a Palazzo Chigi per accelerare l’iter: i leghisti non vogliono aspettare più le calende greche della riforma. Matteo Salvini ieri ha applaudito ricordando che il presidenzialismo certo va fatto, ma «avrà tempi diversi perché parte da zero». Il Pd fa le barricate. Stefano Bonaccini sostiene che spacca il Paese. Francesco Boccia assicura che Calderoli e Salvini verranno fermati, ma come non è chiaro. Se qualche problema ci sarà nella maggioranza, verrà dall’interno. Sarà più facile che a frenare siano i Fratelli d’Italia.
Meglio che le scalcagnate opposizioni si mettano sotto vento, cercando di dire la loro sulla riforma costituzionale. Oppure devono sperare che il referendum confermativo ripeta l’omicidio politico del passato. Il più recente fulminò Matteo Renzi. Ma Giorgia Meloni ha ostentato sicurezza nella conferenza fiume di fine anno. Ha ricordato che l’attuale minoranza parlamentare era per il semipresidenzialismo nella Bicamerale D’Alema. Ecco, citare oggi D’Alema è come agitare il drappo rosso davanti al solito toro. Ma la presidente del Consiglio ha fatto di più nella maratona discorsiva con i giornalisti. Una domanda, quella sulle elezioni regionali, è sembrata secondaria, non degna di nota, visto che la risposta non ha ricevuto l’onore della cronaca da parte dei media.
La domanda era se questo appuntamento imminente, che chiama alle urne gli elettori di Lazio e Lombardia, lei lo aspetta come un giudizio che va oltre il suo significato regionale, se dirà qualcosa sullo stato di salute del governo a due mesi dall’insediamento e dopo la prima manovra economica. In genere i presidenti del Consiglio minimizzano, relegano anche le regionali a fatti locali. La premier invece ha accettato di considerarle un test politico nazionale. Andranno al voto «regioni importanti e c’è una dinamica locale, ma è scontato che emergerà un giudizio anche per il governo», dice. Sicurezza o sicumera?
Meloni ha fatto finta di dover ancora decidere se intervenire nella campagna elettorale. L’ha presa alla larga, dicendo che la miglior campagna elettorale si fa facendo bene il proprio lavoro. «Ma visto che è la prima volta che faccio il presidente del Consiglio, guardo cosa hanno fatto i miei predecessori e mi regolo di conseguenza». Se volesse prendere ad esempio ancora D’Alema farebbe meglio ad astenersi, visto che l’ex leader post comunista da presidente del Consiglio girò l’Italia palmo a palmo nel 2000 e venne sconfitto clamorosamente. Ma non sembra questa l’aria che tira stavolta e Meloni è troppo furba per capirlo.
Infatti, a differenza di quanto dichiarato nella conferenza stampa, sa benissimo che nell’agone elettorale scenderà. Anzi è già scesa. A due mesi dal voto, Roma e le città laziali sono già piene dei classici manifesti giganti 6×6 con il suo volto sorridente e soddisfatto, il tailleur d’ordinanza presidenziale e lo slogan “Liberiamo le energie”, quello che alle Politiche del 25 settembre le ha portato molta fortuna, con l’aggiunta “anche nel Lazio”.
Nel manifesto non si fa cenno a Francesco Rocca, ma non è questo il problema: il candidato del centrodestra è dato già vincente dai primi sondaggi grazie alla rottura a sinistra voluta da Giuseppe Conte. Ai Cinquestelle non interessa vincere con il volto televisivo e ambientalista di Donatella Bianchi, ma totalizzare più voti rispetto alle Politiche e magari superare il Pd. Meloni ringrazia e batte il primo colpo della sua prima campagna elettorale da quando si è insediata a Palazzo Chigi, convinta di vincere a mani basse con il candidato scelto da lei. Facendo dimenticare la figuraccia romana del centurione Enrico Michetti. I suoi programmi potrebbero essere interrotti dal virus, cioè dal Covid che rialza la testa e potrebbe far ritornare alla mente dei laziali che Alessio D’Amato, candidato dal Pd e dal Terzo Polo, è stato un ottimo assessore alla sanità.
Vedremo quanta energia Meloni vorrà liberare per Attilio Fontana. In Lombardia le interessa fare il botto come lista di partito, surclassare Matteo Salvini, imporre un primato che vorrà far valere anche a Roma. Dovesse vincere il governatore leghista uscente, la sua giunta sarà sempre uber Fratelli d’Italia, che in consiglio regionale avranno la maggioranza.
I sonnambuli dell’opposizione intanto gireranno intorno a leccarsi le ferite.