Il 2022 è l’anno della prova dei fatti, anche per una politica ubriaca di parole. Il 24 febbraio le colonne motorizzate russe hanno varcato i confini ucraini e quelli della nostra illusione di pace, nutrita dalla vana convinzione di aver addomesticato le manie di Vladimir Putin. Dopo quella data, per tanti fiancheggiatori inizia l’elaborazione del lutto. Diventa imbarazzante lo scollamento tra gli slogan e il vuoto stridente delle azioni.
C’è una classe dirigente incapace di prendere decisioni alla stessa velocità che usa per twittare. Ma tre donne pragmatiche spezzano il rumore di fondo delle chiacchiere: la presidente dell’Europarlamento, la maltese Roberta Metsola, e le prime ministre di Finlandia ed Estonia, Sanna Marin e Kaja Kallas. Sono loro le nostre donne europee dell’anno. Incarnano un’Europa “a due velocità” che esiste(va) davvero, ma di cui ci siamo accorti solo alla luce dei colori dell’Ucraina proiettati sulle facciate degli edifici istituzionali di tutto il continente.
L’Europa sul treno per Kyjiv
Mentre ci baloccavamo con gli spettacoli di luce, nelle ore in cui gli ucraini erano rifugiati nella metropolitana sotto le bombe, c’è stata un’altra Europa. Un’Europa che prende il treno per Kyjiv, mentre Emmanuel Macron passa ore al telefono con Putin, con i Ventisette appesi ai ricatti di Viktor Orbán e le sanzioni che incespicano a «pacchetti» successivi manco fossero i giga di un’offerta telefonica. È un’Europa giovane, stufa di temporeggiare.
Il suo volto è quello di queste tre donne. Tre, come nel «trilogo» su cui si regge l’architettura dell’Ue, ma, al posto di Consiglio e Commissione, ci sono due Stati membri. A Metsola, Marin, Kallas dobbiamo la resistenza all’appeasement, perché «non ha mai funzionato e mai funzionerà». È simbolico che appartengono alle tre principali famiglie politiche europee: la maltese proviene dai popolari, Marin dai socialdemocratici e Kallas da Renew Europe. Questa generazione di statiste nate tra la fine degli anni Settanta e la metà degli Ottanta ha difeso la democrazia ucraina e, quindi, quella europea.
Metsola, la prima
Metsola è stata la prima tra le persone che occupano i vertici delle istituzioni europee ad andare a Kyjiv. Prima di lei, lo avevano fatto solo i primi ministri di Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia, il 15 marzo, e l’inglese Boris Johnson. Lei lo fa il primo aprile, con una settimana di anticipo su Ursula von der Leyen e tre su Charles Michel, due mesi prima del viaggio di gruppo di Mario Draghi, Emmanuel Macron e Olaf Scholz. Va dato un segnale, a costo di rischiare la vita.
Mancano ancora diversi giorni alla ritirata russa dai sobborghi della città. È già storica la foto della stretta di mano di Metsola con Volodymyr Zelensky, mentre anche lei indossa una maglietta verde simile a quelle del presidente. Da leader di guerra. Sono credenziali più autorevoli delle spillette gialle e azzurre quando interviene a Strasburgo e Bruxelles. Il Parlamento europeo sarà sempre più ambizioso della Commissione e del Consiglio. Sulle sanzioni, sul tetto al prezzo del gas, sull’invio di armi, sull’ingresso dell’Ucraina nell’Ue (e non solo nelle sue “liste d’attesa”).
La dottrina Marin
La Finlandia condivide con la Russia un confine lungo milletrecento chilometri. Contro Mosca ha già lottato (eroicamente) nel Novecento e solo l’ostruzionismo del sedicente mediatore Recep Tayyip Erdoğan impedisce al Paese di entrare nella Nato, insieme alla Svezia. Dopo mezzo secolo di “neutralità”, l’opinione pubblica degli scandinavi ha guardato all’“ombrello” dell’Alleanza atlantica per ripararsi dalle minacce di Putin.
In questo processo, il governo di Helsinki è stato decisivo. Quella di Marin è l’unica ricetta possibile per la pace. E cioè: «Il solo modo per finire la guerra è che la Russia se ne vada dall’Ucraina». Più semplice di così. Finché i mercenari del Cremlino non si ritireranno non ci sono le condizioni per negoziare. Punto. È la dottrina Marin.
Nelle fauci della tigre
Kallas guida la più orientale delle tre Repubbliche baltiche. È nella bocca della “tigre”. Ciò nonostante, ha riattualizzato il mantra di Churchill in piena Seconda guerra mondiale, quando Hitler sembrava inarrestabile: non si ragiona, né si tratta, con la tigre finché abbiamo la testa tra le sue fauci. Di Putin non ci si può fidare. Non esiste oggi una pace disarmata, perché sarebbe cimiteriale. «Dobbiamo dare una speranza all’Ucraina, sta letteralmente combattendo per l’Europa». È un virgolettato dell’11 marzo, ma non invecchierà mai.
Questo articolo è tratto da Linkiesta magazine “Donna vita libertà“. Nelle edicole di Roma e Milano, nelle stazioni e negli aeroporti, oppure sul nostro store online, trovate già il nuovo numero “Scenari 2023“ insieme al New York Times.