Non chiamatelo CabudanniLa notte de Is Candeberis e Is Candelaus

Piatti tradizionali e feste comandate, sacro e profano: gli intrecci della cultura e della cucina sarda per scandire il tempo tra un anno e il successivo sono un fortunato mix affascinante e ricco di storia

In Sardegna le feste si santificano con il cibo. E Capodanno non fa eccezione. Al di là di quelle che possono essere le pietanze tradizionali, pronte ad imbandire la tavola della vigilia e che variano da luogo a luogo. L’Isola, infatti, è un crogiolo di sapori, che cambiano da paese in paese, passando per la montagna, fino ad arrivare al mare: la burrida, preparata con il gattuccio di mare, l’aceto e le noci, il classico maialetto da latte con la cotenna croccante e intrisa di strutto, le cozze con l’aglio e il prezzemolo della costa olbiese, la cordula, dove le interiora dell’agnello o del capretto si intrecciano e si abbrustoliscono sul fuoco vivo. Paese che vai, ricetta che trovi, insomma.

La Sardegna, però, nonostante appaia spesso frammentata e sempre diversa, in realtà ha tradizioni che si toccano e si confondono, in un’unitarietà che descrive l’identità del suo popolo e che trova radici nella sua cultura agropastorale. Andando a scavare in quelli che sono i riti gastronomici dell’Isola, infatti, si possono trovare punti in comune, che trovano dimora in territori anche distanti da loro.

Uno dei rituali più antichi e ancora oggi praticato è quello de su trigu cotu, il grano cotto. In Sardegna, come in tantissime altre culture legate all’agricoltura, il grano rappresenta prosperità e per questo diventa un elemento benaugurante.

«Su trigu cotu assolve alla stessa funzione sia delle lenticchie che della melagrana, perché ha tanti chicchi. Avere tanti chicchi, tanto da non poterli contare, significa lavorare con la magia simpatica e per simpatia le proprietà del prodotto si trasmettono a chi maneggia quel prodotto». A raccontarlo è Alessandra Guigoni, antropologa ed esperta di tradizione gastronomica sarda.

La preparazione di questo grano è lenta e cerimoniale. Il 31 dicembre si mettono in ammollo i chicchi per almeno dodici ore, poi il grano viene fatto bollire nell’acqua e messo a riposare in una scivedda, il classico contenitore sardo in terracotta, usato anche per la lavorazione di pane e pasta. La si avvolge in una coperta di lana o sotto la paglia e il giorno dopo su trigu cotu viene consumato per colazione. Ci sono luoghi dove si aggiunge il latte di pecora appena munto oppure si mangia addolcito con sapa (mosto cotto e bollito, usato nelle antiche ricette come condimento o come ingrediente per il ripieno, n.d.r.) e miele. «Io ho trovato anche una versione salata con il formaggio. Prima quello che c’era in casa si utilizzava. Se non c’era sapa magari c’era il formaggio, ma è meno nota», ci spiega infatti l’antropologa.

Su trigu cotu è una tradizione che ritroviamo in molte zone della Sardegna, nell’Oristanese e nel Sulcis, ad esempio. E l’usanza vuole che venga regalato anche a parenti e vicini, in segno di buon augurio per l’anno nuovo. D’altronde, uno degli auguri più classici in sardo è proprio “saludi e trigu”, salute e grano. E in alcuni paesini è viva ancora la tradizione de Is Candeberis, durante la quale grandi e piccini, la notte di Capodanno, vanno di casa in casa, sbattendo pentole e stoviglie, per svegliare i vicini e regalare loro il grano cotto.

Nel Campidano di Cagliari, invece, troviamo Is Candelaus, inseriti nella categoria di druccis finis (dolci fini) per la loro decorazione delicata ed elegante. Si preparano con mandorle, zucchero e fiori d’arancio e poi si avvolgono nella ghiaccia reale. Hanno le forme più varie: animali o piccoli cestini, i più comuni. Come si può intuire, il nome deriva da kalendae, con cui veniva indicato il primo giorno del mese e in questo caso dell’anno.

In alcuni paesini del Sassarese è ancora usanza preparare dei pani sacri, che devono la loro origine al mondo contadino e che ancora oggi sono celebrati in alcune sagre. Abbiamo sa Pertusitta, una focaccia decorata con immagini di pecore e pastori, sa Zuada, che è la versione per il mondo agricolo, con aratri, buoi e spighe, e infine su Càbude, una sorta di pane dolce ripieno di marmellata e fichi d’India.

Ed è proprio su questo pane che vogliamo fermare la nostra attenzione, perché lo si ritrova in diversi territori, sia in versione dolce che salata, ma ovunque con la medesima forza propiziatrice.

Citando Giovanni Fancello, esperto e docente di storia della gastronomia sarda, scopriamo infatti che «Il nome sardo Càbude è proveniente dal latino caput, testa. Caput anni, inizio dell’anno». Siamo di fronte, quindi, ad un rito antichissimo, già presente in epoca pre-cristiana. Sempre Fancello, in uno dei suoi scritti, ci ricorda come «su Càbude si ricavava impastando la semola fine con la pasta madre, acqua di fonte tiepida e sale. All’impasto lavorato si dava la forma di un uomo o soldato, di contadino o carro di buoi, o altri oggetti simbolo del mestiere del destinatario».

La particolarità di questo pane era proprio la grande carica di simbolismo di cui veniva investito. Durante la cottura, infatti, bisognava stare molto attenti a non romperlo, per non avere sfortune o cattivi presagi. Si era soliti, spezzarlo, questo pane, sia quello in versione salata che quello dolce, sulla testa del figlio più piccolo o del primogenito, facendo cadere le briciole nel fuoco e pronunciando la frase “cantas fischinidas ruene in terra, annos appas de bona fortuna”, “quante son le briciole che cadono per terra, possa tu godere di anni di buona fortuna”.

Tra le tradizioni più affascinanti in Sardegna c’è anche quella della Candelarìa, ricordato anche dal premio Nobel Grazia Deledda. La possiamo incontrare in alcuni paesi della Barbagia ed è davvero un bel modo per celebrare l’inizio dell’anno nuovo. Si tratta di un rito tramandato nei secoli, quando la società era ancora più frammentata di quella di oggi e sa Candelarìa rappresentava un modo per ridistribuire la ricchezza tra ricchi e poveri e incentivare la condivisione del cibo. Questo perché la tradizione voleva (e vuole) che il 31 dicembre i bimbi andassero (e vadano) in giro di casa in casa a chiedere e ricevere una quantità immensa di cose buone. Biscotti, frutta, ma soprattutto su Cocòne, un pane di grano duro, impastato con lievito, acqua, sale e strutto.

Un’ultima curiosità è d’obbligo. In realtà il vero Capodanno sardo, quello chiamato Cabudanni, coincide con il primo di settembre, giorno che segna in Sardegna, e non solo, l’inizio dell’anno agricolo. La terra, il grano e i buoni auspici: tutto torna. Un po’ come il buon cibo e le sue origini.

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